giovedì 31 dicembre 2009

Il posto dei cattolici nell'Italia di oggi

Qualche tempo fa il professore Franco Monaco, cattolico e ulivista prodiano della prima ora, scrisse un articolo molto polemico su l’Unità, bollando come questione “meramente politica”, e non ideologica e culturale, il grido d’allarme e la richiesta di maggiore attenzione lanciati dai cattolici sofferenti nel Pd. A detta del professore il Pd bersaniano avrebbe finalmente impresso una svolta decisava al proprio corso, superando le contraddizioni interne (derivanti dalla somma di identità spesso contrapposte) per raggiungere una visione politica comune e unitaria. Magari Monaco, pur di vedere realizzato il grande sogno di Romano Prodi, è disposto a sopportare la dura e inequivocabile realtà dei fatti. Ma noi no: il Pd italiano altro non è che una riedizione dell’apparato burocratico e gerarchico del Pds-Ds con qualche innesto popolare ex Dc. Naturale che i cattolici siano in sofferenza! La nostra irrilevanza è evidente e sotto gli occhi di tutti: solo al momento del voto sui delicati temi etici ci si ricorda di noi e tutti sono pronti a bollarci come clericali, servi del Vaticano e cose così irragionevoli e sciocche che non sto qui né a riportare né a commentare. Ma come è stato possibile cadere così in basso? Dopo la tumultuosa fine della Democrazia Cristiana e l’archiviazione della Prima Repubblica, i cattolici si sparpagliarono fra gli schieramenti (in questo spinti anche dal Card. Camillo Ruini, che lo riteneva un bene), finendo tra le grinfie ora di Berlusconi ora di Prodi, D’Alema o Veltroni. Condannati a fare da stampella o in alternativa all’insignificanza. La strada della divisione ha portato solo alla debolezza e all’emarginazione delle proposte politiche portate avanti dai cattolici. Ecco perché oggi bisogna proporre una nuova formula di unità per i cristiano democratici: non più dell’unità assoluta, ma neanche della frammentazione controproducente. A mio avviso è al progetto del primo Partito Popolare di Don Luigi Sturzo che dobbiamo guardare: non un partito confessionale e cattolico, ma aconfessionale e di cattolici, che riesca ad accogliere anche i laici più ragionevoli e che possa rappresentare al meglio anche le varie tendenze liberali e moderate. È questa la vera sfida della pluralità e della molteplicità, non certo quella portata avanti dal Pd: forse lo era nelle intenzioni, ma non certo nell’attuazione. Sentir parlare di posizione prevalente e libertà di coscienza fa sorridere se si pensa che i dirigenti democratici minacciano l’espulsione ogni volta che qualche deputato si permette di votare in modo difforme da quello che è l’ordine di scuderia. Oggi l’Udc, insieme a movimenti minori come la Rosa per l’Italia, i Circoli Liberal di Adornato e i Popolari di De Mita, ha messo in cantiere un processo costituente di riunione dei moderati, sia cristiani che laici, attuando quindi una nuova formula di unità, che supera di fatto il rigoroso puritanesimo cattolico della Dc, aprendosi ai moderati di varia estrazione, e proponendosi come casa accogliente in cui più nessuno dovrà vergognarsi di mostrarsi per quello che è veramente. I più guardano a questo processo con sufficienza, ma sono convinto che oggi più che mai un grande partito di centro moderno, liberale e popolare sia indispensabile. Per costruirlo, però, non basta l’Udc. Io credo (e temo), purtroppo, che gran parte dei cattolici sia afflitta da due grandi mali: l’immobilismo e la voglia di inglobamento. Il primo è sotto gli occhi di tutti: pur di non perdere le poltroncine e sgabelli vari, si è disposti a rinunciare alla propria autonomia e libertà. Il secondo, invece, è più latente, meno evidente. Io stesso me ne sono reso conto solo ultimamente, specie quando ho avuto modo di parlare con un consigliere comunale del Pd della provincia nissena. Questi mi ha raccontato di essere disponibile a lottare per la costruzione di un partito di Centro, ma solo se questo significa creare qualcosa di veramente nuovo, non un semplice allargamento dell’Udc con fini meramente elettorali. Ecco perché servono programmi, progetti e proposte, che siano seri, costruttivi e concreti. Uno di questi potrebbe essere l’attivazione di un tavolo a livello nazionale (con la possibilità di sezioni territoriali) dove nessuno debba dover rinunciare preventivamente alle proprie appartenenze politiche, dove il reciproco rispetto della legittimità delle altrui opinioni politiche sia il fondamento di una ricerca serena e costruttiva di soluzioni, il più possibile condivise, dirette al conseguimento del bene comune. Un tavolo caratterizzato dalla comunanza dei principi della Dottrina Sociale Cristiana e che possa riconoscersi nelle encicliche sociali come l’ultima Caritas in Veritate. Un luogo libero e franco, in cui lavorare insieme alle associazione culturali e alle varie espressioni del laicato e dell’associazionismo cattolico. Un tavolo da costruire subito, tutti insieme, per evitare di diventare servi inutili di un’idea politica sbagliata.

giovedì 24 dicembre 2009

Buon Natale a tutti. Ma proprio tutti!

Buon Natale ai nostri lettori e ai nostri detrattori. Buon Natale a chi ci ama e buon natale a chi ci odia. Buon Natale a Casini e a Fini. A Rutelli e a Berlusconi. A Bersani e a Di Pietro. A Ferrero e Vendola (sì, anche a loro). A Schifani e a Napolitano. Buon Natale a chi crede e a chi non crede. Buon Natale a chi domani andrà a messa e a chi invece resterà a dormire in casa propria. Buon Natale a chi lo aspetta e buon Natale a chi lo odia. Buon Natale a De Bortoli e a Belpietro. A Boffo (di cuore) e a Feltri (meno). Auguri a chi, nonostante tutto, si sente ancora un democristiano. O fascista, comunista o liberale. Auguri a chi staserà mangerà al calduccio tra amici e parenti e auguri a chi invece sarà sui tetti o chiuso nelle fabbriche a protestare. Auguri (sentiti) a chi vota Udc. Auguri a chi sceglie di votare Pdl e a quelli che votano Pd. Auguri anche alla Lega e all'Idv, con la speranza che il 2010 porti in casa loro un po' di moderazione. Auguri ai ricchi sfondati. Auguri ai poveri (e ai poverissimi): possa Dio aiutarvi. Auguri al Papa (e agli Imam). Auguri ai professori e agli intellettuali. Auguri anche alle veline e ai veloni. Alle donne bellissime come Belen e alle donne semplici come la Bindi. Auguri a Marrazzo e a Brenda. E soprattutto a Roberta, la moglie, che in tutta questa storia è quella che ha sofferto di più. Auguri grandissimi alle famiglie delle vittime dell'Aquila e a quelle di Giampilieri. Auguri anche a chi è restato. Auguri alla famiglia di Stefano Cucchi (che la verità possa venire a galla) e alla famiglia di Eluana (possa la pace essere con voi). Auguri a Internet e ai giornali. Auguri ai pendolari e ai sindacati. Auguri a tutti i deputati, ai senatori, agli europarlamentari, ai ministri e ai loro elettori. Auguri alla Costituzione e alla Democrazia. Auguri agli immigrati e a tutti i maltrattati. Auguri a tutti noi. Auguri all'Italia, tutta intera.

mercoledì 23 dicembre 2009

Il regicidio mancato e il dialogo necessario

Puoi uccidere quest’uomo con tranquillità. (Victor Hugo, Chatiments)

Albert Camus ha dedicato alcune delle pagine più belle e significative del suo “L’Uomo in rivolta” al regicidio, la più alta forma di attacco alla Monarchia. Uccidendo il Re si uccide il suo Regno, si attacca, quindi, direttamente il fulcro emanatore del suo potere. Camus prende a modello il regicidio più famoso della storia, quello perpetrato ai danni di Luigi XVI, ultimo re della Francia assolutistica e totalitaria. Il filosofo francese spiega con grande semplicità che “non sempre il regicidio diventa sinonimo di libertà”. A volte, infatti, potrebbe semplicemente essere un modo di sostituire un re scomodo, non amato dai sudditi. Di intrighi del genere ce ne sono stati tanti nel mondo antico. Chi non ricorda le congiure di palazzo a Roma durante i fastosi banchetti imperiali? Ciò nonostante quando un imperatore veniva assassinato, veniva immediatamente nominato il suo successore: a nessuno sarebbe mai venuto in mente di ucciderlo per mettere la parola fine al potere imperiale. E così è stato a lungo nella storia, fino a quando sul patibolo non salì Luigi XVI. “Vive la République!” fu il grido che pervase le strade di una Parigi in festa: dopo di lui i francesi non vorranno più nessun altro re. Prima di lui già Oliver Crowmell se ne era servito in Inghilterra per eliminare lo sconfitto Carlo I e sostituire alla monarchia un governo repubblicano. Ma oggi, dicembre 2009, un regicidio è ancora pensabile? È ancora ipotizzabile colpire il massimo esponente di un sistema democratico? Di sicuro è possibile farlo. Abbiamo visto tutti cosa sia successo al Presidente del Consiglio due domeniche fa a Milano: una riproduzione in gesso e metallo del Duomo di Milano lo ha colpito in pieno, causandogli la frattura di due denti e del setto nasale. Le immagini di quegli istanti ci sono state riproposte centinaia di volte in televisione, accompagnate ogni volta da commenti di autorevoli personaggi, pronti a condannare questo atto di violenza inaudito e ingiustificabile. Più o meno, dicevano tutti la stessa cosa, finché un intellettuale di grande valore come Giuliano Ferrara, direttore de “Il Foglio”, si è chiesto: “e se fosse regicidio?”. Ammettiamo pure che lo fosse (in fondo Berlusconi è pur sempre il nostro presidente del consiglio e resta il leader assoluto del più grande partito politico italiano) resta da definire l’identità di questo regicidio e il suo obiettivo finale: lo psicolabile Tartaglia voleva colpire lo Stato, rappresentato in quel momento dal premier, o il Berlusconi uomo? La risposta è scontata: il colpo era indirizzato all’uomo, non all’istituzione. È bastato un attimo, un solo attimo e il Principe Silvio si è trasfigurato in una maschera di sangue, il suo corpo si è fatto pesante ed è crollato a terra e il suo sguardo è diventato assente. Sembrava davvero la fine più cruenta e terribile del quindicennio berlusconiano. E invece è andata bene: Berlusconi si è rialzato ed è stato prontamente ricoverato, al sicuro da ogni altro rischio. Prima di lui solo Mussolini ci era andato così vicino. La mattina del 7 aprile 1926, infatti, venne ferito da una donna inglese, Violet Gibson, che gli sparò da distanza ravvicinata, ferendolo lievemente al naso. Il giorno dopo, Mussolini, appena medicato prima di recarsi in Libia, commentò: «Le pallottole passano e Mussolini resta». Ma già Niccolò Machiavelli nel suo De Principatibus metteva in guardia il Principe dal male che i suoi sudditi avrebbero potuto tramare nei suoi confronti e per questo lo invitava a essere “furbo come la volpe e forte come il lione”: il Principe deve “antivedere” ogni possibile “disastro” e cercare ogni mezzo per neutralizzarne i danni. Non so quanto il nostro Principe sia stato in grado di farlo: di sicuro non lo è stata la sua scorta, che lo ha ripetutamente esposto a rischi sempre maggiori nei minuti dopo il lancio della statuetta. Karl Marx nell'incipit de Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte scrive: “Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa”. Se è davvero così, la trasfigurazione sanguinolenta del premier rappresenterebbe il primo segno del suo declino e ciò rischia solo di infervorare il già teso clima politico ancor di più. Gli estremisti non mancano, in nessuno dei due poli. Si presentano solo in forma diversa: a sinistra giustizialisti e forcaioli, a destra reazionari e “proscrizionisti”. E in questo modo il dialogo necessario tra i due poli viene meno e viene soffocato dal protagonismo di qualche aspirante leaderino. I risultati di questa politica dello scontro e del sangue sono sotto gli occhi di tutti: il tentato regicidio ai danni di Berlusconi ne è la prova più evidente. Oggi serve necessariamente il dialogo e tutti noi abbiamo il dovere morale e politico di favorirlo con ogni mezzo a nostra disposizione. Anche a costo di scontrarci con i pregiudizi dell’opinione pubblica. Oggi servono coraggio, riflessione e buona volontà. Li troveremo?

Per le regionali costruiamo una casa dei moderati

Le elezioni regionali si avvicinano ormai. Siamo già entrati in pieno clima pre elettorale e le varie candidature sono già state scelte: tra le più attese, è stata confermata la piena sudditanza del Pdl alla Lega, che conquista Veneto e Piemonte, scalzando rispettivamente gli azzurri Galan e Crosetto. In Lazio è invece l'occasione di Renata Polveriri, Ugl, vicina agli ex An, mentre aperte restano le partite in Puglia e in Campania. E aperta resta ancora la partita dell'Udc e di Alleanza per l'Italia, che non sembrano essersi ancora messi d'accordo su come muoversi. Unico dato certo il fatto che Api o correrà con il proprio simbolo in alleanza con noi, oppure inserirà direttamente suoi candidati nelle nostre liste. Ottima notizia, anche perché questo potrebbe essere veramente il banco di prova per testare la resistenza e la forza reale del nostro progetto. Perché però tutto possa riuscire nel migliore dei modi, è necessario che non si commettano errori tattici o politici: se vogliamo davvero svecchiarci e presentarci come il nuovo, dobbiamo essere disposti a mettere in gioco tutto. A cominciare dal nostro simbolo. A livello regionale noi dell'Udc abbiamo sempre reso bene, meglio rispetto alle competizioni nazionali e gli ultimi sondaggi sono dalla nostra parte: secondo il Liberale, infatti, un terzo polo centrista e moderato supererebbe il 10 per cento in molte regioni e a livello nazionale raggiungerebbe il 9,5 per cento dei consensi. Ma questa è una stima basata solo sulla somma dei voti di Udc e Api. Una casa dei moderati veramente nuova potrebbe tranquillamente inglobare anche la miriade di partiti regionali, spesso di ispirazione cristiana o liberale: penso a IO SUD della Poli Bortone, ai MODERATI PER IL PIEMONTE di Portas, alla SVP, allo stesso MPA di Raffaele Lombardo, con cui Rutelli in questi giorni sta avendo più di un abboccamento, e ai vari gruppi popolari della Basilicata. Senza contare il fatto che si potrebbero coinvolgere anche il PRI di La Malfa, il PLI di De Luca, i LIBERALDEMOCRATICI e il PSDI. Una coalizione moderata inedita, che diventerebbe la base, poi, per il completamento del progetto della Costituente di Centro. In fondo, è questa la struttura futura che ci vogliamo dare: non centralisti e romano centrici, ma federali e aperti alla collaborazione con le varie autonomie regionali, vere espressioni del territorio. Invece di preoccuparci se appoggiare questo o quel candidato, i nostri dirigenti potrebbero ripartire da questo...

domenica 20 dicembre 2009

Grazie, perché mi avete restituito la forza di credere!

Amici volontari grazie! Grazie di cuore! Perché in questi due giorni mi avete ridato la forza di credere che un futuro migliore possa finalmente essere costruito. E saremo noi, tutti insieme, a gettarne le fondamenta!

martedì 15 dicembre 2009

Mi dispiace ma ormai non ci credo più

Berlusconi dopo il colpo al viso che lo ha fatto sanguinare
Ormai non credo più alla storiella della pace e del rispetto in politica. Ormai non credo più al fatto che in Italia si possa convivere democraticamente anche con idee opposte. Ormai non credo più che tra la classe dirigente al potere, critica politica e rispetto istituzionale possano coesistere e completarsi. Perché ormai sono in pochi, in troppo pochi quelli che si adoperano per difendere i valori basilari di democrazia, di libertà e di vita sociale su cui la nostra Repubblica si fonda. Perché il discorso resta sempre e solo uno: meglio urlare, meglio esasperare, piuttosto che parlare e discutere civilmente. Meglio trincerarsi dietro un triplice "vergogna!" o scambiarsi accuse di ogni genere. Meglio dare del "mafioso" e sentirsi rispondere "istigatore". Meglio alzarsi dai banchi del Parlamento non appena un nostro nemico prende la parola. Meglio nascondersi dietro un nickname e lasciare insulti sui blog o dare un nome fittizio a un gruppo su Facebook per ingannare ignari visitatori. Ma è davvero questo quello che la gente vuole? E' in questo clima teso da guerra civile che gli Italiani vogliono trascorrere i loro prossimi giorni? Di sicuro, la maggior parte dei nostri onorevoli preferisce quotidianamente imbracciare i fucili, indossare gli elmetti e gettarsi all'attacco degli avversari. Chi diavolo se ne importa di chi invece tenta di riportare la calma, la ragionevolezza e la riflessione nell'agone politico! Cosa può mai interessare a una ministra che espone il proprio progetto per soffocare le democratiche espressioni di contestazione dei richiami del Presidente della Repubblica? Ma d'altro canto, credo che non interessi nemmeno al leader di uno dei maggiori partiti di opposizione. E così chi chiede "maggiore serenità" nel valutare gli "avversari politici", finisce soffocato nel tritacarne delle urla e delle grida. O addirittura tacciato di essere uno dei mandanti morali dell'assalto a Berlusconi. Noi ci sforziamo di indicare la luna e tutti al seguito a guardare il dito. Meglio continuare ad abbaiare sempre più forte. Con violenza sempre maggiore. Forse perché è meglio così? No. Solo perché è molto più comodo.

venerdì 11 dicembre 2009

Solo fantapolitica, vero?

[...] In Sicilia il presidente Lombardo ha avviato un percorso politico interessante, a cui, da tempo, avevo invitato a guardare con attenzione. Ora nel Gruppo Misto sono in stretto contatto con gli otto parlamentari dell’Mpa. Sono convinto che, prima o poi, si consumerà la rottura con Berlusconi e dalla Sicilia uscirà un assetto diverso, con il quale i dirigenti dell’Udc siciliana (verso i quali spesso mi sono trovato in dissenso) dovranno fare duramente i conti [...].
Bruno Tabacci sul suo blog
Qualche tempo fa avevo scritto un post in cui raccontavo degli avvicinamenti tattici che Rutelli (dietro consiglio e spinta di Tabacci) sta avendo con il Mpa di Lombardo e il Pdl Sicilia di Micciché. Solo fandonie, futuristica fantapolitica mi si disse. E invece gli avvenimenti degli ultimi giorni sembrano dare ragione alla mia tesi. Se le cose andranno come devono andare, presto a Sala D'Ercole verrà presentato il Lombardo Ter, frutto della snaturata alleanza tra l'attuale governatore, il sottosegretario al CIPE di Micchichè e il Pd siciliano. Ma si potrebbe aggiungere anche un quarto attore: l'Alleanza per l'Italia di Rutelli che, dopo aver registrato l'adesione di Mario Bonomo, sarebbe sul punto di ingigantire il proprio gruppo con l'adesione di altri 10 parlamentari delusi, provenienti dal Pd, dal Pdl e qualcuno addirittura dall'Udc. Ma il vero obiettivo rutelliano sarebbe un altro: offrire ai due fustigatori del centrodestra l'adesione al suo nuovo partito, in cambio di alcune importanti garanzie a livello nazionale. In questo modo, Lombardo e Miccichè potrebbero essere garantiti e avrebbero una posizione di rilievo nelle trattative al momento della futura fusione con l'Udc siciliano. In fondo un governo che da una base di centrodestra (31 deputati) con l'appoggio esterno del centrosinistra del Pd (29 deputati) rischia di apparire come un autogol eccessivo. La musica suonerebbe diversamente se i 31 deputati si dichiarassero appartenenti a un movimento centrista che mira a costruire un'alternativa a Berlusconi partendo dalla Sicilia, da sempre laboratorio politico di grandi novità. Anche perché questa potrebbe veramente essere l'anteprima di Kadima in salsa italiana: non dobbiamo dimenticarci che all'interno del Pdl Sicilia ci sono numerosi finiani... A confronto il Milazzismo sembra una favoletta per bambini.

giovedì 10 dicembre 2009

La Destra oltre il Centro

Beppe Severgnini oggi dalle colonne di Sette definisce “improponibile” il progetto di una Destra delle regole, perché in Italia se si vuole essere de destra lo si deve essere alla maniera della Lega: muscolosi, battaglieri e intransigenti. E non moderati, aperti, riflessivi. Quindi Fini farebbe meglio a rivedere la sua posizione e a dare un assetto definitivo al proprio riposizionamento politico: perché dopo la sua svolta a “sinistra” (se così la si vuole definire) l'area del Pdl non è proprio più casa sua. Dura risposta da parte di Filippo Rossi che nel suo corsivo quotidiano su FareFuturo invita il giornalista del Corsera a indirizzare il proprio “pessimismo” altrove: “l'Italia merita di cambiare e diventare un paese normale”. Rossi cita anche lo storico Giovanni Tassani e immagina una destra “libertaria e non autoritaria, riformista e non conservatrice, democratica, non populista, non gerarchica, non totalitaria, non antimoderna, non patriottarda, non razzista e non classista”. Un bell’affresco, non c’è che dire. Ma non vi pare che questa Destra assuma dei caratteri che l’avvicinano di più a un’idea centrista della politica? Qualche tempo fa proprio sul Secolo d'Italia, Agostino Carrino, scriveva che se i grandi partiti vogliono tornare a vincere devono essere in grado di recuperare voti al Centro. Non quello partitico, però, ma quello ideale, punto di sintesi costruttiva tra le idee conservatrice e quelle progressiste: un elettore di Centro moderno è definibile come un “progressive conservative”, un conservatore progressista. Basta dare un’occhiata al panorama politico mondiale: in Europa tutte le Destre sono tornate a vincere solo dopo aver virato con decisione al Centro, in modo da poter competere in modo più diretto con i partiti riformisti e socialdemocratici. Già il grande filosofo cattolico Augusto Del Noce distingueva due modi di fare Centro: da una parte, il compromesso, la prassi che prende il posto dei principi e degli ideali, un partito senza filosofia e senza religione come punto d’incontro neutro generato dall’affievolirsi di due spiriti. Una aggregazione senza grandi passioni che promette un benessere tranquillo e persuade al sonno e che vive prevalentemente sull’inadeguatezza degli altri partiti. Insomma, la “palude” della Rivoluzione Francese. Dall’altra, il “Centro” inteso come luogo della restaurazione dei principi che non punta alla dissociazione di teoria e pratica, bensì all’apertura del nuovo orizzonte dell’eternità dei valori della persona per un nuovo umanesimo politico; che diventa nella visione di Del Noce addirittura una fedeltà creatrice. Certo, il Centro finiano sarebbe diverso da quello incarnato dall’Udc: sarebbe più laico, più liberale, più progressista. Ma sarebbe un’agente destinato ad interloquire con il progetto da noi portato avanti e diventerebbe parte integrante del sogno di una Kadima italiana. Anch’io, come molti, specie tra gli elettori cattolici, ho dei seri dubbi su come si possano far convivere le divergenze in materia etica: ma se oggi vogliamo costruire un partito nuovo davvero dobbiamo essere disposti a superare le differenze e a valorizzare le nostre visioni comuni. Il centrismo di oggi dunque si presenta in tempi e modalità diverse da quello che abbiamo conosciuto finora, ma ha una continuità di ispirazione ideale che fa sì che la componente storica del popolarismo e del cattolicesimo democratico possa confluire una prospettiva più ampia: parlare oggi, dunque, di centrismo significa confrontarsi con le grandi novità dell’integrazione europea, della globalizzazione e di una sintesi possibile tra economia sociale e mercato mondiale liberale. Servono molti passi in avanti per giungere a questo punto. Sia Fini che Casini ne hanno compiuti già una buona parte: con l’apporto di Rutelli e di esponenti della società civile come Montezemolo, forse si può riuscire a creare qualcosa che paradossalmente riesca ad andare addirittura oltre il “Centro” stesso, superando definitivamente le terribili e intoccabili categorie politiche del Novecento, come ha auspicato lo stesso presidente Casini in un’intervista sul Messaggero. Un passo del genere riuscirebbe a superare anche il malconcio e fallimentare bipolarismo bloccato e potrebbe donare all’Italia un partito di governo forte, duraturo, europeo, moderno. Il futuro del nostro Paese passa per una Destra capace di convergere al Centro. Non ci resta che aspettare.

mercoledì 9 dicembre 2009

Il posto dei cattolici

Siamo sempre più scomodi noi cattolici. In realtà lo siamo molto nei due grandi partiti dello schieramento politico italiano: nel Pdl siamo visti come utili e interessanti suppellettili, mentre nel Pd ormai c'è un diffuso senso di insofferenza nei nostri confronti. Fortuna che esiste l'Udc. O almeno così scrive stamattina Massimo Franco sul Corsera, e gli fanno eco tutte le tensioni di questi giorni: Dorina Bianchi è uscita dal Partito Democratico per aderire (o meglio tornare) nell'Unione di Centro e con ogni probabilità sarà seguita a ruota da molti altri scontenti, in primis il gruppo dei Teodem e l'ex rutelliano Renzo Lusetti, che potrebbero formalizzare il proprio passaggio già nei prossimi giorni. Enzo Carra, deputato teodem con una lunga storia nella Dc prima e nella Margherita poi, ha aperto, ad esempio, sul proprio blog una corrispondenza con il presidente della Costituente di Centro Savino Pezzotta, circa la necessità di ripensare la formula dell'impegno politico dei cattolici italiani: è giusto rimanere divisi tra tutti gli schieramenti o è meglio ritrovarsi in un grande partito di centro di ispirazione cristiana? L'idea del nostro presidente è chiara e sembra che anche Carra vi converga: "la nostra buona volontà è stata confusa con acquiescenza a una linea sempre più neolaicista". Anche sul versante del Centrodestra la situazione non è delle migliori: i cattoberluscones sono sempre più in sofferenza, specie a causa dell'affaire Boffo, rivelatosi tutto una montatura colossale, e per le continue sparate leghiste, ultima quella diretta al cardinale Tettamanzi. La reazione del mondo cattolico non si è fatta attendere: l'Avvenire (che con il nuovo direttore Tarquini ha assunto una linea più nettamente antiberlusconiana) ha parlato di "battaglia para-religiosa e di slogan indegni senza verità" e Gian Maria Vian si è detto preoccupato e ha ricordato che così "il messaggio cattolico è a rischio". Ma qual è, allora, il posto dei cattolici in politica? Con la fine della Democrazia Cristiana, il ruinismo era riuscito a trovare una risposta soddisfacente a quel momento di crisi, ma ora è sotto gli occhi di tutti che la strada della divisione ha portato solo alla debolezza e all'insignificanza dei cattolici. Ecco perché bisogna proporre una nuova formula per i cristiano democratici: non più dell'unità assoluta, ma neanche della frammentazione controproducente. Riproporre una formula, quindi, che si ricolleghi al progetto del primo Partito Popolare sturziano: serve un nuovo Appello ai liberi e forti. Non un partito cattolico, ma di cattolici, che riesca ad accogliere anche i laici più ragionevoli e che possa rappresentare al meglio le tendenze liberali e moderate del panorama politico cattolico. E' questa la vera sfida della pluralità e della molteplicità, non quella portata avanti dal Pd, di cui ci parla Franco Monaco su l'Unità di oggi. Forse lo era nelle intenzione, ma non certo nell'attuazione. Come si può parlare di posizione prevalente e libertà di coscienza e poi minacciare l'espulsione se qualcuno si permette di votare liberamente? D'altro canto è inutile continuare a tergiversare, quando la situazione è chiara agli occhi di tutti: non ci si può fare ingannare da alcuni specchietti per le allodole, scelti tra ex popolari come Rosy Bindi e Enrico Letta. Proprio Letta, devo dire la verità, mi ha molto deluso. Qualche giorno fa ho finito di leggere il suo ultimo libro, "Costruire una Cattedrale". Bello, molto bello, intenso, forte, realista. Una sola cosa non ho capito: ma me lo spiegate che senso ha scrivere centinaia di pagine sulla necessità di costruire un Centro forte che possa allearsi con una nuova Sinistra non a trazione dipietrista, perché l'elettorato è tripolare e non bipolare e poi accontentarsi di fare il secondo di Pier Lenin Bersani? Certo, ammetto che probabilmente una parte di responsabilità forse ce l'abbiamo anche noi dell'Udc, che non siamo riusciti a offrire una garanzia di futuro concreto al giovane Letta, ma ora che il nostro progetto si è dimostrato stabile e destinato a crescere ancora, spero che ci ripensi, visto che il nostro nuovo partito ha bisogno di gente e di intelligenze come lui. Anche perché mi sa che l'unica alternativa concreta al berlusconismo possa venire da noi e dal nostro progetto di ragionevolezza e coraggio. Perché come ripeteva il grande Alcide De Gasperi "solo se uniti saremo forti, solo se forti saremo liberi".

sabato 5 dicembre 2009

Il nostro posto nell'Italia con l'elmetto

Come sarebbe l'Italia di oggi vista da un altro pianeta? Cosa penserebbe un marziano se potesse vedere le sorti del nostro Paese legate alle dichiarazioni atomiche di un pentito o alla buona riuscita o meno di una manifestazione di piazza? Una terribile immagine. Basta prendere in mano il telecomando e dare un'occhiata ai vari salotti televisivi per rendersi conto di quanto siamo caduti in basso: ormai l'informazione si seleziona a seconda del partito votato, le trasmissioni fanno a gara per ingraziarsi il Capo (facendo outing vergognosi come quello della conduttrice Monica Setta su Rai2) o per denigrarlo più efficacemente possibile (vedi Santoro&C.). Alla faccia di chi vorrebbe avere un quadro della situazione chiaro e realistico. Ieri, tanto per fare un esempio, la trasmissione Ottoemezzo di Lilli Gruber si è risolta in un interminabile teatrino delle parti tra Daniele Capezzone, portavoce del Pdl e Gianfranco Mascia, uno dei promotori del No B-Day: sembravano a scuola, con la Gruber che sbatteva i piedi, furiosa perché messa da parte nel loro scambio di assurde ovvietà. Proprio il No Berlusconi Day tiene banco ormai da più di due settimane nell'agenda politica nostrana. Una manifestazione come tante altre, direte voi. Forse tra una settimana nemmeno ce la ricorderemo più. O forse no. Sicuramente non possiamo eluderla o glissarla così facilmente: dobbiamo porci delle domande serie. Sono due, principalmente, quelle che ritengo non possano essere tralasciate. Primo: perché una manifestazione di una tale portata è riuscita a nascere in modo così spontaneo? Secondo: può la democrazia riceverne un bene o un male? E' chiaro a tutti che se oltre 350 mila persone scelgono di sfilare in piazza grazie a un semplice passaparola telematico, è perché il nostro Paese vive un periodo di profondo malessere sociale, economico e politico. Non è solo antiberlusconismo, è qualcosa di molto più profondo. Peccato che poi ci siano sempre i Di Pietro e i veterocomunisti a rovinare tutto, facendo degenerare una manifestazione popolare nel solito raduno di sinistrorsi incontentabili, da cui rimangono inevitabilmente esclusi coloro che vogliono veramente cambiare le cose. Io stesso, che in un primo momento mi ero pronunciato favorevolmente, ho ritirato la mia adesione, dopo la notizia che la manifestazione era diventata cosa di Tonino. E così, purtroppo, nemmeno la democrazia ne riceverà un vantaggio. Ci saranno striscioni, urla, forse qualche incidente. Ma sarà talmente politicizzata, talmente settoriale, che finirà per rivolgersi a una sola parte del nostro Paese, con contorni ben definiti e precisi, e sarà così soltanto fine a se stessa. Ma in un’Italia spaccata tra berluscones e antiberlusconiani, pronta a imbracciare quotidianamente i fucili e a indossare gli elmetti, c'è ancora spazio per chi crede nel bene comune e nel bisogno di rifondare dalle fondamenta il nostro Paese? Sì, quello spazio c'è. Ma ha bisogno di essere ascoltato, di essere sfruttato (nel senso positivo del termine), di essere rafforzato. E oggi non c'è nessuno veramente disposto a farlo, se si eccettuano gli sforzi condotti avanti dall'Udc e dal nostro presidente Pierferdinando Casini. La formula di un'opposizione costruttiva che lavori per il bene del Paese è talmente rivoluzionaria e inusuale da far paura. Meglio gridare, urlare, abbaiare: è più comodo, più semplice. Ecco perché dobbiamo continuare sulla strada che abbiamo imboccato da tempo, quella del buonsenso e della ragionevolezza. Perché a decidere il bene della nostra Italia non saranno né le piazze, né le bombe atomiche dei pentiti. Saranno i volenterosi e i coraggiosi. Saremo noi.

venerdì 4 dicembre 2009

Le debolezze del Pdl

Ma cos'è veramente il Pdl? Se a molti potrà sembrare una domanda retorica, per me non lo è assolutamente. Perché è in questi ultimi giorni la situazione sta evolvendo in modo così radicale e drastico da costringere a porci domande più profonde di quelle solitamente elusive che ci siamo posti fin ora. Parto da una considerazione di merito ovvia e scontata: il Popolo delle libertà e il governo Berlusconi sono caratterizzati da un immobilismo evidente. Anche il dibattito e la vita interna al partito è tutta vissuta come uno scambio di accuse e di minacce reciproche. Quello che solo otto mesi fa sembrava destinato a diventare una delle pietre miliari della storia politica italiana ha finalmente mostrato la sua vera faccia: un mero e semplicistico allargamento di Forza Italia ai danni di Alleanza Nazionale e di tutto il Centrodestra. Ma non si dia dello stupido a Gianfranco Fini, attenzione. A mio avviso, infatti, sarà l'unico a trarre dei vantaggi concreti e spendibili da questo conglomerato di contraddizioni chiamato Pdl. Grazie al lavoro della fondazione FareFuturo e ai suoi personali strappi e fughe in avanti, adesso chi si ricorda più del Fini fascista e nostalgico, leader di un partito che nonostante tutto veniva pur sempre dall'alveolo culturale di Giorgio Almirante? Ormai Fini è il conservatore liberale, emblema di una destra moderna, difensore dei diritti civili e alfiere delle proposte di intengrazione degli immigrati, ultimo baluardo contro l'inarrestabile avanzata del leghismo xenofobo e intransigente. Berlusconi, invece, ha assunto i contorni del populista mediatico, dell'amico dei dittatori sanguinari e antidemocratici, del nemico della democrazia e della libertà di parola. Va senza dubbio riconosciuto che le uniche proposte capaci di ravvivare la vita interna del Pdl vengono proprio da Fini e dalla sua ala politica: è innegabile che il lavoro accademico di FareFuturo sia un beneficio anche per tutto il panorama politico italiano. Non nego di essere un estimatore del loro studio, anche se il mio conservatorismo cristiano mi impedisce di condividere alcune tra le loro proposte, specie in materia di diritti civili. In fondo cosa fa il versante berlusconiano? Da quando la fondazione Magna Carta e l'Occidentale hanno indossato l'elmetto, tutti i loro risultati si sono militarizzati, privandoli del loro fascino culturale e intelletuale. Ma ciò che mi amareggia più profondamente è la totale trasparenza e inconsistenza che i cattolici democratici, i popolari ex dc, hanno dentro il Pdl. Dove sono i vari Formigoni, i Pisanu, gli Alfano, i Rotondi, i Baccini o i Pionati? Non sono stati capaci nemmeno di costitursi in una misera fondazione, un semplice network! Sono stati solo arruolati in uno o nell'altro schieramento, perdendo il loro originario valore. Valgono di più e si comportano meglio i ministri di origine socialista (vedi il cattolaico Sacconi)! Ieri ha scritto con profonda lucidità Angelo Panebianco che presto potremmo conoscere in diretta un mega divorzio delle libertà: le due destre stanno per separarsi e per scegliere una nuova strada. Quella berlusconiana tenterà di consolidarsi, rafforzando il proprio rapporto con la Lega, mentre quella più moderata e riflessiva di Fini incrocerà con ogni probabilità il proprio cammino con il progetto neocentrista portato avanti da Casini e Rutelli. Sempre Kadima, eh?

mercoledì 2 dicembre 2009

Il nostro 2 dicembre

Sono già passati tre anni da quella splendida serata. Sono già passati tre anni da quando l'Udc comprese che era davvero giunto il momento di smettere di essere solo un'appendice del centrodestra e diventare veramente un partito di centro. Sono già passati tre anni. Eppure sembra solo ieri. Questi 1080 giorni trascorsi sono stati i più difficili, i più impegnativi e i più belli e importanti della nostra storia: quella sera, dal palco del Palasport di Palermo, Pierferdinando Casini disse chiaramente che il Centrodestra aveva fallito nella stessa misura in cui stava miseramente fallendo il Centrosinistra: "la Casa delle Libertà non ha più senso. Il suo ritualismo fa parte del passato e non di una prospettiva presente". Parole di una straordinaria attualità se si considera che ora le sentiamo sulla bocca del presidente della Camera, Gianfranco Fini, che però quel 2 dicembre era a un'altra manifestazione, quella di piazza San Giovanni, la piazza dei parrucconi. Dicevo che questi sono stati tempi difficili, difficilissimi per il nostro partito: le elezioni politiche del 2008 sembravano dover essere l'inizio della fine per il nostro sogno di poter costruire una grande forza moderata, centrista, popolare e liberaldemocratica. Sembravamo essere destinati a essere stritolati dalla morsa bipartitica del Pd e del Pdl, i due grandi partiti di creta senz'anima. E invece, solo un'anno e mezzo dopo, cosa è successo? Dal Pd è uscito Francesco Rutelli, uno dei suoi padri fondatori, che con la sua Alleanza per l'Italia si appresta a confluire nel nostro progetto; Gianfranco Fini, altro cofondatore del Pdl, è su distanze sempre più nette dal suo stesso partito e presto, probabilmente, si unirà a noi e al nostro sogno di costruire una Kadima italiana che possa essere un elemento di normalizzazione politica e sociale, che archivi la ormai logora Seconda Repubblica e apra finalmente le porte alla Terza Repubblica. In tre anni, dal 2006 al 2009, abbiamo fatto più cose che in dodici, dal 1994 al 2006. Senza rendercene conto, anche lo stesso Dna del nostro partito è mutato profondamente: la base elettorale si è rinnovata e negli ultimi giorni sta crescendo esponenzialmente. Tutti i politologi migliori e i sondaggisti più affidabili sono concordi nell'affermare che l'area di centro (Udc+Api) viaggia stabilmente sopra il 10 per cento. Ma ora il tempo delle parole, degli avvicinamenti tattici, delle strategie a lungo termine è finito. Il nostro nuovo partito non deve ereditare il blocco del voto moderato da nessuno: se lo deve conquistare con i denti, fino all'ultimo residuo di percentuale. In questi 15 mesi abbiamo scelto, giustamente, di imboccare la strada rischiosa della coerenza e del coraggio: non buttiamo tutto in aria proprio adesso. Adesso tocca a Casini farci sognare di nuovo. Come ha già fatto durante quella meravigliosa notte.