Il termine pregiudizio (dal latino prae, "prima" e iudicium, "giudizio") può assumere diversi significati, tutti in qualche modo collegati alla nozione di "giudizio prematuro" (cioè parziale e basato su argomenti insufficienti e su una loro non completa o indiretta conoscenza). Nel linguaggio della psicologia sociale, quando si parla di pregiudizi ci si riferisce a un tipo particolare di atteggiamenti, spesso di intolleranza e di insofferenza che possono addirittura sfociare in vergognosi atti di razzismo. Spesso pregiudizio fa rima con ignoranza, perché si ha paura dell'altro, dell’altra cultura, specie quando la si conosce poco. Quasi ogni giorno sui vari TG, ad esempio, sentiamo di poveri immigrati picchiati soltanto perché “negri”, cioè con un colore di pelle diverso dal nostro, o accusati di essere pericoli pubblici per la nostra stabilità sociale solo ed esclusivamente perché poveri e senza lavoro. Oppure si sente dire che le città con un alto tasso di immigrazione sono le più pericolose, facendo così di tutta l’erba un fascio e finendo per far confusione tra criminali e gente onesta. Ciò che certamente fa più male poi, è il fatto che qualcuno, che si propone come amministratore e che quindi dovrebbe non solo assecondare il popolo, ma educarlo prima di tutto, si lasci andare alla demagogia e al populismo, cavalcando le legittime paure della gente e fomentando l’odio nei confronti del diverso. Come lo sceriffo Gentilini, che a suo tempo se ne uscì con frasi vergognose come « Voglio la rivoluzione contro i campi dei nomadi e degli zingari. Io ne ho distrutti due a Treviso. E adesso non ce n'è più neanche uno. Voglio eliminare i bambini che vanno a rubare agli anziani. Se Maroni ha detto tolleranza zero, io voglio la tolleranza doppio zero». E altre cose del genere che non meritano nemmeno di essere ripetute. Ma c’è una cosa che mi ha stupito ancora di più: che nell’Italia che l’anno prossimo festeggerà i 150 anni dalla propria fondazione, ci siano ancora episodi di intolleranza nei confronti dei cittadini del Sud. Non mi credete? Ve lo dimostro subito: qualche giorno fa, il 2 aprile con esattezza, prima di coricarmi ho guardato la puntata del programma condotto da Gianluigi Paragone, giornalista e vice direttore del TG1. La puntata era di un’indecenza inammissibile: già dal titolo, “Italie”, devo dire che sospettavo qualcosa: ma quello che ho visto e che ho sentito, proprio non me lo sarei aspettato. La puntata infatti ruotava tutto intorno alla volontà di dimostrare che vivere al Nord è molto meglio che farlo al Sud. Perché nella ricca e fertile Padania i cittadini sono modelli viventi di ordine e legalità, mentre noi terroni siamo soltanto dei mafiosi e degli sbruffoni. O almeno così la pensa il neo governatore veneto, Luca Zaia, che facendosi forte di strampalate classifiche e di vergognosi luoghi comuni, ha quasi dato del mafioso agli operai Fiat di Termine Imerese. Carissimo ministro Zaia, ma in che mondo vive? O è soltanto completamente impazzito? Lei crede davvero che tra un operaio Veneto e uno della Sicilia ci possano essere delle differenze? O magari, come ha sostenuto, tra uno spacciatore di Palermo e uno di Treviso? Tra un universitario veneto che il venerdi sera con il SUV del padre, dopo essersi ubriacato e drogato, e un suo collega siciliano, che magari passa il weekend a casa? Non esiste nessun’altra Italia, né tantomeno una fantomatica Padania. Esistono solo odio e ignoranza, ma di questo voi non vi siete resi conto. Chissà come mai.
venerdì 9 aprile 2010
Paragone, Zaia e i vergognosi pregiudizi leghisti
sabato 3 aprile 2010
Il futuro del Centro e il bipolarismo straccione
Piero Ostellino, sul Corriere della Sera di giovedì scorso, ha scritto un lucido e spietato fondo, dal titolo “L’illusione dei centristi”, in cui vuole dimostrare che nel nostro sistema politico, ormai profondamente bipolarizzato, non può esserci spazio per iniziative di stampo centrista e moderato. Per Ostellino, infatti, la scelta dell’Udc di Casini di proporsi come gamba ora dell’uno ora dell’altro schieramento, ha finito per condurlo a una situazione di “subalternità politica e un annacquamento della propria identità etico-politica”. Sforzo vano, visto che “le due grandi forze bipolari sono in grado di conquistare autonomamente voti al centro”. Ho già analizzato precedentemente i risvolti virtuosi di una politica che punti dritta al Centro. Già il grande filosofo cattolico Augusto Del Noce, d’altronde, aveva distinto due modi di fare Centro: da una parte, il compromesso, la prassi che prende il posto dei principi e degli ideali, un partito senza filosofia e senza religione che si pone solo come punto d’incontro neutro generato dall’affievolirsi di due spiriti. Un’aggregazione senza grandi passioni che promette un benessere tranquillo e vive prevalentemente sull’inadeguatezza degli altri partiti. Insomma, la “palude” della Rivoluzione Francese. Dall’altra, il “Centro” inteso come luogo della restaurazione dei principi che non punta alla dissociazione di teoria e pratica, bensì all’apertura del nuovo orizzonte dell’eternità dei valori della persona per un nuovo umanesimo politico; che diventa nella visione di Del Noce addirittura una fedeltà creatrice. Il progetto politico di cui è sponsor principale l’Udc deve necessariamente aderire a questa seconda visione: la volontà di aggregare di tutti i moderati, siano essi di ispirazione cattolica o liberale, deve trovare la sua spinta nell’esclusiva progettazione di un vasto partito nazionale e centrista, che vada dai piedellini insofferenti ai moderati delusi del PD, aggregando i vari Rutelli, Tabacci e Buttiglione. Il fondo di Ostellino, però, ci offre anche altri spunti di riflessione, primo fra i quali il posto che un partito così potrebbe occupare in un sistema bipolare. Le recenti elezioni ci hanno dimostrato che, seppur in modo limitato, l’Udc (dove ha scelto la corsa in solitario) è riuscito a ritagliarsi uno spazio tra i due grandi blocchi, con risultati oscillanti tra il 4 per cento delle zone rosse e il 9 della Puglia. Un risultato dignitoso se si considera che ha lottato ad armi impari e che gli altri possibili azionisti moderati sono rimasti al sicuro dentro le rispettive caserme, ma che ci costringe a riflettere su come allo stato attuale, i centristi da soli possano fare ben poco. Il rischio concreto, infatti, è quello di essere condannati all’irrilevanza, specie quando l’esito della contesa appare scontato, come in Lombardia, dove il povero Pezzotta ha raggranellato soltanto uno scarso 5 per cento dei consensi. Ma è un rischio che deve essere corso, se si vuole davvero aggiungere la meta. Questo non può più essere il tempo delle attese. Deve essere il tempo delle risposte. Per farlo bisogna subito riaprire il dialogo con chiunque sia autenticamente convinto ad aprirlo e che non ce la fa a riconoscersi nella sinistra esistente in Italia, conservatrice e giustizialista, incapace di rompere davvero con le terribili ideologie e mitologie del Novecento, o con chi, simmetricamente, vive con grave difficoltà il proprio fare politica nel centrodestra ormai profondamente leghizzato. Come però fa attentamente notare Ostellino, è difficile sfuggire alla domanda sul perché oggi possa nascere, sopravvivere e affermarsi un Grande Centro, dopo tutti i fallimenti registrati finora. Qualche risposta però si può tentare di darla. Prima fra tutte, le sostanziali incompatibilità che si sono venute a creare tra i vari moderati e gli estremisti-populisti sia nel PDL che nel PD: ad oggi c'è un'interlocuzione, uno scambio, un’attrazione possibile tra l’area liberale e cattolica del PDL (rappresentata rispettivamente da Fini e da Pisanu) e l’area ex dc e moderata del PD, con un Centro dotato di una forte capacità attrattiva. Ecco perché servono programmi, progetti e proposte, che siano seri, costruttivi e concreti. Uno di questi potrebbe essere l’attivazione di un tavolo a livello nazionale (con la possibilità di sezioni territoriali) dove nessuno sia costretto a dover rinunciare preventivamente alle proprie appartenenze politiche, dove il reciproco rispetto della legittimità delle altrui opinioni politiche sia il fondamento di una ricerca serena e costruttiva di soluzioni, il più possibile condivise, dirette al conseguimento del bene comune. Un tavolo caratterizzato dalla comunanza dei principi della Dottrina Sociale Cristiana e che possa riconoscersi nelle encicliche sociali, come l’ultima Caritas in Veritate. Un luogo libero e franco, in cui lavorare insieme alle associazione culturali e alle varie espressioni del laicato e dell’associazionismo cattolico. Un tavolo da costruire subito, tutti insieme, per evitare di diventare soprammobili e ornamenti di un Bipolarismo straccione.
Aggiornamento/1: La risposta a Ostellino di Marco Follini (una pecorella smarrita forse pronta a tornare all'ovile?)
Aggiornamento/2: La risposta di Adornato a Ostellino