L’ottimo sito Scenari Politici ha pubblicato ieri un interessantissimo sondaggio sul voto politico italiano diviso per fasce sociali e occupazionali, utile per leggere a fondo le ultime evoluzioni del nostro quadro politico. Dal sondaggio emerge che il Centro destra è in netto vantaggio tra gli agricoltori, gli artigiani e i lavoratori autonomi; in misura minore tra operai, casalinghe, pensionati, dirigenti e professionisti; il Centro sinistra, invece, va forte tra gli impiegati, più nel pubblico che nel privato, e bene anche tra gli studenti; mentre il nostro partito, l’Udc, conquista una discreta fetta di consensi tra gli agricoltori, gli artigiani, le casalinghe e i pensionati (categorie queste da sempre vicine alle istanze cattolico democratiche) e ottiene, non senza fatica, un 6 per cento tra gli studenti, in linea con il dato nazionale finale. Male invece tra i disoccupati, gli impiegati pubblici e privati, i dirigenti e i professionisti (con un dato oscillante tra il 4 e il 5 per cento). Analizzando quindi il dato è chiaro che il core business resta sempre quello di derivazione Dc: forte al Sud, specie nei piccoli Comuni a trazione agricola e vicino ai contadini e agli agricoltori. Ormai che la nascita del Partito della Nazione sembra essere alla porte, questo sondaggio può essere fonte di ispirazione critica per la costruzione del nuovo partito. Casini lo ha presentato dicendo che bisogna rivolgersi “a tutti quegli italiani che vogliono starci. Il resto non ci interessa. C’è bisogno di ricostruire un sentire comune tra tutti gli italiani, c’è bisogno di una grande pacificazione nazionale e di proposte di buon senso. Non c’è da conservare l’esistente, ma c’è da cambiare”. Ora, il cambiamento è sempre una pratica auspicabile, ma rischia di diventare ambigua se non gestita correttamente. Che vuol dire cambiare? E soprattutto, può il cambiamento combinarsi e armonizzarsi con la conservazione? Secondo me, sì. Non vedo perché la nascita del nuovo partito debba essere per forza sinonimo di rimozione: il nostro compito, in questa delicata fase di gestazione, deve essere quello di preservare il nostro patrimonio culturale e politico e farlo confluire in un quadro più ampio e importante. Non serve a nessuno nascondersi dietro un dito: l’Udc è un partito centrista e democristiano che ha a lungo percorso il luminoso sentiero del popolarismo sturziano e degasperiano. Oggi leggevo di alcuni volontari che quasi “auspicavano” (mi sia concesso dirlo) un abbandono del simbolo dello Scudo Crociato, visto come un’“eredità che certe volte è troppo ingombrante e troppo limitante”. Non è affatto così, perché quel simbolo non significa solo democristianità, ma rappresenta valori e ideali politici che non possiamo permetterci di buttare a mare! Ho letto anche di chi definiva Don Luigi Sturzo un grande statista, ma ormai passato. Sicuri? Basta leggere qualcosa dei suoi scritti per rendersi immediatamente conto che non è così, che le riforme che il sacerdote calatino propugnava quasi cento anni fa sono quanto di più attuale possa esistere. Scuola, società, politica, regioni: l’Italia di Don Luigi potrebbe essere un’Italia cento volte migliore di quella di oggi e di quella che una parte dei nostri governanti vorrebbe disegnare. Perché, come non si stanca mai di ripetere il filosofo Dario Antiseri, don Sturzo è stato il pensatore cattolico-liberale più luminoso e acuto del nostro secolo, non adeguatamente studiato e approfondito. Farò una proposta controcorrente: riscopriamolo e riacquistiamo i suoi insegnamenti, attualizzandoli e valorizzandoli. Senza dimenticare lo sguardo al futuro. Per questo, rapidamente e umilmente, tenterò di tracciare una road map del da fare. Prima di tutto, se vogliamo davvero diventare maggioranza, dobbiamo radicarci sul territorio: l’Udc può infatti contare su un discreto numero di truppe, spesso guidate, però, da generali opportunisti. Ce ne siamo resi conti chiaramente alle ultime elezioni regionali: non appena si fa una scelta diversa e rischiosa, sono in molti quelli a salutarci. Serve quindi un ritorno tra la gente, con i porta a porta, i comizi di un tempo, le sezioni fortemente strutturate e la produzione di proposte serie, concrete e realizzabili (capaci di conquistare non solo gli agricoltori, ma anche e soprattutto la classe media). Secondo: aprirci alle varie realtà dell’associazionismo laico e cattolico. Terzo: superare definitivamente la forma partito UDC che abbiamo conosciuto finora; ormai è un limone spremuto, più di questo non può dare. Se si continua a procrastinare la nascita del nuovo partito di Centro, saremo condannati alla sconfitta perpetua: ecco perché spero che Todi sia davvero l’inizio di un cammino rapido e proficuo. È da più di un anno che si parla del fatidico congresso che segnerà il compimento della Costituente di Centro. Ma ogni volta che la data fissata si avvicina, questa scivola lentamente e inesorabilmente: prima era stato annunciato per dicembre dell’anno scorso, poi è passato ad Aprile di quest’anno, ora è fissato per il prossimo autunno. L’Udc può rappresentare, l’embrione, il punto da cui ripartire per costruire un nuovo partito, moderno ed europeo, occupando uno spazio che vada da Fini a Follini, passando per Tabacci, Rutelli, Pisanu, Dellai e Fioroni. Ma un partito così ha senso se riesce non tanto a staccare correnti o pezzi di nomenklatura ai partiti maggiori, quanto a raccordarsi con i settori poco rappresentati nella politica attuale. Con i lavoratori dipendenti stanchi di essere superati in autostrada dai Suv degli evasori cui pagano le medicine e le scuole ai figli, indignati con un governo pronto a varare condoni e scudi vari e delusi da una sinistra che nel 2006 aumentò l’aliquota Irpef proprio al ceto medio dipendente; con i giovani professionisti delusi da una politica gerontocratica e gerontofilia, incapace di ascoltarli; con le famiglie, numerose e non, al centro di continui proclami e spot, rimaste in attesa del miraggio del quoziente familiare. Il nuovo partito dovrà essere quindi in grado di stipulare un’alleanza forte e coerente con i ceti e le categorie che rappresentano la vera ricchezza d’Italia e che invece non sono adeguatamente rappresentate. Molti italiani trarrebbero vantaggio da una politica che premiasse il merito e imponesse la responsabilità, che riconoscesse i diritti e facesse rispettare regole e doveri. Quarto e ultimo: valorizzare le nostre energie giovani, fuori da vecchi e superati schieramenti partitici e ideologici, ma capaci di attualizzare e valorizzare le nostre idee e i nostri valori guida. Perché, non dimentichiamocelo mai, si può conservare e innovare, senza che uno escluda l’altro.
mercoledì 12 maggio 2010
martedì 11 maggio 2010
La scuola, i mezzi e la libertà che non c'è
La scuola è sempre al centro dell’agenda politica italiana. È vero, se ne sente parlare spesso, troppo spesso: ma che risultati concreti si ottengono poi? Se la discussione resta fine a sé stessa e circoscritta in un ambiente troppo ristretto, infatti, non può ottenere nessun risultato. E’ necessario, infatti, cercare un coinvolgimento attivo dei ragazzi, i fruitori principali di un buon sistema scolastico, sempre meno attratti dalla nobile arte della politica e sempre più schifati, invece, da quei mercenari senza dottrina e senza ideali che l’amministrano. Uomini senza scrupoli, maestri nell’arte sofistica della vuota retorica, pronti a ingannare la gente, vendendo spot e promesse come fossero certezze e nascondendo, invece, intrallazzi e imbrogli vari. A volte, poi, quando scelgono di varare riforme importanti come quelle della scuola, si limitano a divulgarne pochi particolari, costruendo ad arte una verità che non esiste. La prova del nove sta proprio in questa riforma scolastica: quanto tempo è passato prima di poterla conoscere nella sua interezza? Troppo. Tutto é iniziato quasi due anni fa, con il decreto 112 del 25 giugno 2008 sulla stabilizzazione della finanza pubblica: al capo II “Contenimento della spesa per il pubblico impiego”, all’art. 64 si legge che nei successivi tre anni scolastici andranno risparmiati 8 miliardi circa di euro. Come? Si danno alcune (generiche) indicazioni. Intanto, tutti i giornali riportano le interviste del ministro su grembiulini, rigore, voto di condotta, merito, serietà. A sorpresa, però, il Consiglio dei Ministri vara un decreto, il 137 del 1 settembre, su “Disposizioni urgenti in materia di istruzione e università”. Si introducono: il voto di condotta in decimi, che fa media, per tutti i gradi di istruzione obbligatoria, dalle elementari alle superiori; l’insegnante unico alle elementari, per 24 ore settimanali di lezione; libri di testo bloccati per 5 anni. Tutte iniziative interessanti e condivisibili. Ma resta insoluta la grande domanda: si tratta di proposte finalizzate a un vero e profondo rinnovamento del nostro sistema scolastico o sono solo spot? O peggio, coperture? In un paese ammalato di scarsa competitività, la scuola secondaria superiore è infatti il grande anello debole della catena. La riforma varata dal governo pare essere soprattutto orientata al taglio delle cattedre, a far cassa insomma. Il problema di fondo, è però, a mio avviso, un altro. In Italia esiste un grave deficit di competitività, rispetto ai canoni europei (si pensi alla Germania, alla Francia o alla Spagna), con un numero di laureati pari a quelli del Cile, solo per fare un esempio. La scarso livello di competitività e l’assenza di una ragionata offerta formativa che guardi all’Europa e al mondo impediscono quindi la formazione adeguata dei nostri cittadini e futuri dirigenti. Ecco perché tra gli obiettivi di una riforma non può che essere primario l’impegno ad aumentare la capacità di apprendimento di tutti gli studenti, selezionando fin da subito i migliori, secondo reali criteri meritocratici, in modo da creare soldati e generali da spendere poi nella battaglia della competitività del nostro sistema paese. Siamo sicuri che la riforma operi in questo senso? Siamo proprio sicuri che i due interventi di riordino degli indirizzi scolastici e della riduzione del monte orari vadano in questa direzione? Di sicuro, produrranno un ingente guadagno di cassa. Ma possono i tagli migliorare la nostra situazione? A mio avviso bisognerebbe intervenire fin da subito sulla qualità del corpo insegnante: bisogna invogliare le menti migliori, incentivandole con retribuzioni adeguate, selezioni accurate, formazione all’ingresso, aggiornamento professionale, distribuzione delle cattedre e stabilità dell’insegnamento nel tempo. Soprattutto, aumentando il prestigio sociale della professione. Prospettiva difficilmente realizzabile nel paese dei baroni e degli eterni precari. Intervenire solo sul numero di docenti per classe e ridurre gli orari farà felice il ministro dell’economia Giulio Tremonti, ma sono sicuro che difficilmente si possa tornare a essere competitivi in questo modo. Perché come disse già Don Luigi Sturzo oltre 60 anni fa: “due cose mancano alla scuola in Italia: libertà e mezzi; ma i mezzi senza libertà sarebbero sciupati; mentre con la libertà si riuscirebbe anche a trovare i mezzi”. Parole che ci invitano a riflettere. Seriamente.
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