giovedì 28 gennaio 2010

I teodem non sono finiti. Il loro futuro è con noi.

Nel bene e nel male (soprattutto) Paola Binetti è sempre protagonista delle vicende interne al PD. La psicologa numeraria dell’Opus Dei, 66 anni, voce suadente e catturante, infatti, non perde occasione per rimarcare la propria lontananza da diverse (praticamente tutte) scelte e posizioni del suo partito. Dopo essere stata la principale animatrice della corrente dei Teodem e dell’associazione Persone e Reti, la senatrice cattolica sembra ormai con tutte e due i piedi fuori dal partito. Negli ultimi giorni è stata vista a un pranzo con Pier Ferdinando Casini e Enzo Carra (ex suo sodale) e ieri si è intrattenuta in una lunghissima e fittissima discussione con Bruno Tabacci, portavoce dell’Alleanza per l’Italia. Pare che la sua fuoriuscita dal gruppo democratico sia ormai cosa fatta, mentre oscura rimane ancora il suo approdo: andrà direttamente nell’Unione di Centro, dove ad aspettarla ci sono già Carra, Lusetti e Bianchi, o si farà mediare da Rutelli e dall’Api? Di sicuro, nel frattempo, fa di tutto per ricordare al mondo che i Teodem non sono morti e lottano ancora. Oggi su Europa, infatti, insieme a Luigi Bobba, Enzo Carra, Marco Calgaro e Donato Mosella ha sottoscritto una lettera dal titolo molto forte: “I Teodem non sono finiti”. L’articolo nasce come risposta ad un altro pezzo, pubblicato sempre su Europa e a firma di Mario Lavia, secondo il quale all’origine della diaspora teodem non ci sia una questione cattolica, ma il disgregamento della componente rutelliana nel Pd, che dopo la fondazione di Alleanza per l’Italia, è rimasta orfana della sua guida e del suo padre nobile. Quello che colpisce, infatti, è che lo sfarinamento di questo gruppo alle prese vada di pari passo con l’esigenza di aggiornare la sua linea e di produrre una nuova e coerente proposta politica: i Teodem sembrano in piena crisi di identità. La loro volontà di difendere integralmente i principi del cristianesimo democratico cozza sempre di più con il profilo laico e a volte massimalista che il Pd sta assumendo. Molti se ne sono già andati e così lo “scioglimento al sole” del gruppo appare tanto più sorprendente in quanto riguarda una componente di cui tutto si può dire tranne che non fosse attrezzata e organizzata dal punto di vista culturale e morale. La “diaspora” assomiglia quindi di più ai tristi tramonti dei gruppetti politici che non ad un esito alto e consapevole: e pensare a quanto hanno contato in questi anni, dal punto di vista della discussione politica e culturale, nella vita prima della Margherita e poi del Pd, specialmente quando si trattava di votare provvedimenti in materia etica e sociale. La loro nascita risale alle elezioni del 2006, quando il card. Camillo Ruini invitò Francesco Rutelli a sistemare nelle liste della Margherita un gruppo di cattolici legati alle associazioni sociali di settore. L’ex sindaco romano, impegnato com’era a diventare il nuovo leader del cattolicesimo di popolo, accettò di buon grado la proposta ecclesiastica e blindò le varie candidature suggerite. La stessa situazione venne replicata nel 2008, ma è a seguito delle dimissioni di Walter Weltroni dalla segreteria del partito che i guai cominciano a farsi sentire, sino ad arrivare ad oggi e alla disperata lotta per la sopravvivenza. Con gli ovvi risultati che conosciamo: i deputati sono passati da 7 a 2 e i senatori da 5 a 4. Oggi la loro permanenza nel Pd non ha più senso: con il progetto di un nuovo partito moderato cosa si aspetta a compiere l’unica scelta saggia? Possono continuare ad avvallare le scelte radicali e comuniste che l’inerme dirigenza Pd ha compiuto in questi giorni? Quella ricca elaborazione culturale e morale, di cui si sono sempre fatti portatori può sopravvivere e fecondare solo un humus disposto ad accogliergli in funzione della loro identità e autonomia. I Teodem, che spesso possono essere sembrati troppo arroccati nelle loro posizioni, fedeli ai loro (che sono anche i nostri) principi, devono essere disposti a rimettersi in gioco all’interno di una cornice politica e sociale nuova e più vasta. Fuori dal Pd e dentro al Centro. È compito dell’Udc favorirne l’integrazione: il nuovo partito potrà nascere solo se saprà comunicare con il mondo dell’associazionismo laico e cattolico da cui provengono spesso i Teodem: le Acli, la Fuci, la Comunità di Sant’Egidio, le Coop bianche, l’intergruppo per la Sussidiarietà e le fasce più moderate di Comunione e Liberazione e dell’Opus Dei. Perché, infatti, quest’occasione non vada sprecata è necessario che all’appello non manchi nessuno. E tra questi un ruolo chiave lo rivestono proprio i Teodem.

domenica 24 gennaio 2010

Perché la fusione tra Udc e Api non può più attendere

Le elezioni regionali sono ormai alle porte. E con esse si avvicina il momento della prova per la politica messa in atto dall'Udc. Giornali e tv non fanno altro che parlare della cosiddetta "strategia dei due forni", trascurando il fatto che Casini abbia scelto modalità di alleanze innovative, rifiutando di essere ingabbiato in una delle due coalizioni e stringendo accordi direttamente con i candidati presidenti. Ma, cosa da non sottovalutare, queste elezioni possono essere il banco di prova per la resistenza del rapporto tra Udc e Alleanza per l'Italia. Purtroppo, come personalmente speravo, i due partiti non si presenteranno uniti ovunque (visto che Api e Rutelli hanno rifiutato le avances del Centro destra) e ciò è già un grave impedimento. Ciononostante avremo una lista unica di Centro in Piemonte, a sostegno della Bresso, e in Veneto, a favore di De Poli: i due esempi serviranno rispettivamente a testare quanto il nuovo Centro possa contare in un'alleanza organica di Centro Sinistra e quanto, invece, sapranno valere da soli. In Piemonte l'esperimento è molto, molto interessante, visto che si tratterà di sintetizzare la cultura di provenienza Udc e quella ex Margheritina, rappresentata sia dal cattolico Marco Calgaro che dal laico Gianni Vernetti, e di costruire un CENTRO-Sinistra nuovo e innovativo. In Veneto, invece, vedremo se De Poli riuscirà a unire tutti i moderati e riformisti che si rifiutano di piegare il capo alla logica spartitoria tra Lega e Pdl. Probabilmente avremo liste comuni anche in Liguria, con Burlando, nelle Marche, con Spacca e ovunque i centristi sceglieranno di andare da soli (Emilia, Umbria, Toscana e Lombardia). Sfumata, invece, la possibilità di un'alleanza in Lazio: qui la situazione è fortemente complessa. L'Udc, infatti, ha scelto di sostenere Renata Polverini, sindacalista "socialista" del Pdl, in opposizione alla radicale Emma Bonino. Se personalmente stimo molto la Polverini, la scelta di questa alleanza mi lascia perplesso: i saluti romani di Storace e Thilgher sono tanto incompatibili con noi quanto lo sono i sinistrorsi estremi o no? In campo c'era una validissima alternativa sia all'una che all'altra: Linda Lanzilotta, una laica ragionevole e moderata, con cui presto dovremo incontrarci, che rappresenta il tipo di laicità positiva che dobbiamo necessariamente innestare nel DNA del nuovo partito e che, ad oggi, è rappresentata da una consistente parte degli aderenti ad Alleanza per l'Italia. La fusione tra i due partiti, infatti, non può più assolutamente attendere. Abbiamo già perso troppo tempo: Rutelli ha fatto bene a non entrare direttamente nell'Udc, ma ora cosa aspetta a legare Api alla Costituente di Centro? Perché in Parlamento non si costituiscono gruppi unici, come DS e DL fecero in prospettiva della fusione nel PD? In questo modo si stabilirebbe una tabella di marcia con tempi ben definiti e non saremmo costretti a vedere ogni volta posticipata la nascita del nuovo partito. Attraendo anche tutte quelle forze libere nel parlamento che non si riconoscono né nel Centro Destra né nel Centro Sinistra: come i Liberal Democratici, i Repubblicani e i deputati non iscritti a nessuna componente. Solo così potremo costruire la casa comune di tutti i moderati, laici e cattolici, dei liberali e dei riformatori. Ecco perché non possiamo più attendere.

giovedì 21 gennaio 2010

Perché l'Eco-fede esasperata non ci salverà

Avatar è un film stupendo. Su questo mi sembra non ci possano essere dubbi: James Cameron ha impiegato talmente tanti effetti scenici e artifici cinematografici da imprimere nella mente di guarda il film l’impressione che il magico mondo di Pandora, ultima oasi verde eco sostenibile, esista veramente. E così si finisce per perdere di vista (è proprio il caso di dirlo) il contesto e il vero significato dell’opera. Tutta la trama ruota intorno al marine disabile Jake Sully che, grazie alle meraviglie tecnologiche, occupa il corpo di un altissimo alieno di oltre 3 metri e viene inviato sul mitico pianeta Pandora alla ricerca di un fantastico minerale. Inevitabilmente, però, sceglie di schierarsi dalla parte dei nativi ed abbraccia l’eco-fede degli abitanti di Pandora e le loro dee degli alberi, le “madri di tutto”. Insieme agli aborigeni e al contributo dell’ecosistema pandoriano, decide quindi di combattere per la difesa del pianeta contro le forze malvagie e colonizzatrici del suo stesso popolo umano. Ed ecco dove sta l’inganno: il messaggio che il film rischia di far passare è quello esclusivamente ecologista e eco-centrista. Molti critici, specie americani, infatti, hanno definito Avatar “un’apologia del peggior panteismo”. La critica, mossa da Ross Douthat sul New York Times, colpisce il segno anche se è stato John Podhoretz, sul Weekly Standard, a sottolineare un punto ancora più importante. “Cameron” dice Podhoretz “ha scritto Avatar non per essere controverso, ma proprio per raggiungere lo scopo opposto: ha cercato di compiacere il maggior numero possibile di persone”. Ovviamente, questo sembra essere assurdo: ma è proprio così. Tutto il pianeta Pandora è infatti una specie di gigantesco catalizzatore di energia vitale, di cui ogni creatura pandoriana si nutre, sempre tesa ad ascoltare il respiro silenzioso e profondo della natura nella sua totalità. E come un’anima da cui prendono forma i singoli organismi, così Pandora diventa la Grande Madre che lega le sue creature tra loro in un afflato universale. Con una connessione tra creature che in certi casi avviene addirittura in modo fisico, attraverso un’unione di energia e materia dei corpi che ha un che di sessuale e di mistico insieme. Molto suggestiva, ma anche molto criticabile. In un’epoca in cui le religioni ufficiali e tradizionali, infatti, sono vittime di attacchi continui e ingiustificati, si sta diffondendo una nuova sorta di spiritualità, spesso laica e materialista, che, imbevuta di dottrine filosofiche orientali, si propina all’umanità come modello efficace per trascorrere serenamente la propria vita. E in questo contesto si inscrive perfettamente l’ecologismo, che ha finito per confondere la giusta battaglia per il rispetto dell’ambiente con una vera e propria fede: molti ambientalisti cercano di mutuare la loro causa in un imperativo morale, proprio come i Na’Vi. E non è un caso che Al Gore insista tanto nel dire che il riscaldamento globale è “una sfida spirituale all’umanità” e che la campagna elettorale di Obama, caratterizzata da un fortissimo sentimento verde, si sia incentrata su una sorta di mistica attesa religiosa per il “cambiamento”. Vale allora ricordare le parole che papa Benedetto XVI ha pronunciato in occasione della Giornata mondiale della Pace: “la questione ecologica non va affrontata solo per le agghiaccianti prospettive che il degrado ambientale profila all’orizzonte; a motivarla deve essere soprattutto la ricerca di un’autentica solidarietà a dimensione mondiale, ispirata dai valori della carità, della giustizia e del bene comune”. Perché a salvarci non sarà certo l’esasperato eco-centrismo.

giovedì 14 gennaio 2010

L'Idv. Forca Italia!

Dopo lo PsicoDramma Pd e il Non Partito Pdl, arriva il post sull'Idv, il partito ad personam. Che da cespuglio centrista e moderato dell'Unione, s'è fatto partito di (estrema) sinistra, costruendo la propria parabola politica sull'antiberlusconismo e firmando una polizza assicurativa sull'elettorato estremista sfuggito al controllo del Pd e dei comunisti. Tutto è cominciato alle elezioni politiche del 2008, quando Veltroni (convinto allora di poter vincere davvero) aveva imbarcato Di Pietro e il suo partito, con la promessa di costituire poi gruppi unici in Parlamento. E invece l'Italia dei Valori vide salire i suoi consensi dal 2 al 4 per cento e dimostrò di poter formare un gruppo unico in Parlamento. L'inizio della fine: il magistrato ex mani pulite ha cavalcato l'onda dell'antiberlusconismo di bandiera e è riuscito a conquistare una buona fetta di voti Pd in uscita, arrivando all'8 per cento alle ultime elezioni europee. Da allora ha cominciato a intensificare i propri rapporti con quell'area, rappresentata da intellettuali come Paolo Flores D'Arcais, Marco Travaglio, Andrea Camilleri, Michele Santoro; ha aperto le proprie liste agli esponenti del nuovo movimento viola, candidando Luigi De Magistris, Sonia Alfano e Gianni Vattimo; si è addirittura posto in alternativa al Pd, minacciando di correre con propri candidati in Veneto, Calabria e Lombardia; i media fanno a gara per sostenerlo, come ci insegnano il Fatto e AnnoZero, MicroMega; fa a gara con la Lega per intercettare il voto rosso degli operai e ormai ha un vocabolo politico tutto suo, dipietrismo. Lui che l'Italiano (per sua candida ammissione) non lo sa nemmeno parlare. Ma sono davvero tutte rose e fiori nella storia del molisano Tonino? Pare proprio di no. Le contraddizioni interne al partito, che fra poco celebrerà il suo congresso, sono molteplici. Tutte messe in luce dai suoi grandi amici radical chic, che magari sognerebbero un Idv amministratrice unica e delegata a diffondere il sacro verbo antiberlusconiano. Lo pregano tutti di sciogliere il suo partito e di rifondarlo dalle basi, ancorandolo stabilmente a Sinistra e scacciando i vari amministratori locali che sono l'unica rete reale del partito. Molti se ne sono già andati: Pino Pisicchio, Giuseppe Astore, Giuseppe Giulietti, Bruno Cesario: si sono tutti trovati una più comoda casa centrista. Ma non abbiamo ancora finito: la lista è lunga. A fronte, infatti, di problemi giudiziario (come la vicenda del figlio del leder, Cristiano), ce ne sono anche di natura politica. Che posso mettere alla luce molto più semplicemente. Primo fra tutti: l'assoluta inconsistenza culturale e ideologica del partito. In Europa l'Idv infatti all'ALDE, il gruppo dei liberali e dei democratici. In poche parole, dei garantisti antilegalitari per eccellenza. E se in Italia Di Pietro urla tanto, in Europa il suo gruppo vota tranquillamente le varie richieste di immunità, spesso si trova in sintonia con il PPE (in cui siedono PDL e Udc) e, se qui da noi critica la presunta politica dei due forni, in Europa ha scelto il gruppo centrista per eccellenza che si offre ogni volta o ai popolari o ai socialisti del PSE. Mica male sotto il profilo della coerenza... Idem anche per l'inconsistenza reale del partito. L'Idv è cosa di Di Pietro, su questo non ci piove. Il congresso di cui ha parlato è una pura formalità: De Magistris è prontamente ritornato nei ranghi dopo aver paventato una sua possibile candidatura. Intanto, per prepararsi a questo appuntamento, Di Pietro non perde occasione per rilanciare il suo antiberlusconismo e per indossare l'elmetto e imbracciare il fucile. Attaccando quotidianamente Berlusconi che si fa gli affari suoi, Napolitano che è troppo istituzionale, Bersani che è troppo democratico. Mah! Piccolo consiglio personalissimo a Di Pietro: visto che il suo partito ad personam somiglia tanto al partito personale di Silvio, perché non lo rinomina Forca Italia? Suona bene, no?

mercoledì 13 gennaio 2010

Il Pdl. Il non partito.

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Dopo lo PsicoDramma Pd, arriva il Non Partito PDL. Un partito in confusione, dilaniato da lotte di potere interne, i cui leaderini vari fanno a gara per omaggiare il loro presidente Berlusconi, e che poi alle spalle, sono pronti a tramare nei suoi confronti. L'esempio più eclatante è quello di Renata Polverini. Ma perché fa paura? Perché ha più in comune con Gramsci che con Hayek? Perché è l'esempio di una destra sociale (e non liberista) vicina alla gente? O perché è donna? E perché alcune aree del Pdl arrivano a considerare come una benedizione una eventuale sua sconfitta? Secondo me perché frutto dell'accordo stipulato tra Gianfranco Fini e Pierferdinando Casini. Cosa che ai berlusconiani doc va giù difficilmente. Anzi, non va giù proprio. Il partito azzurro per eccellenza, infatti, di azzurri ex forzisti in verità ne sta candidando proprio pochini: a parte Formigoni, infatti, praticamente non c'è nessun altro. In Veneto il Pdl ha regalato la presidenza al leghista Zaia, scaricando l'amato Giancarlo Galan (anche se l'ultima parola non è ancora stata detta); in Piemonte, stessa storia: al forzista Guido Crosetto è stato preferito il verde Cota; in Calabria è stato schierato un altro finiano, Giuseppe Scopelliti; in Campania (dopo il bidone Cosentino) hanno candidato un socialista, Stefano Caldoro, e in Puglia il Pdl rischia di candidare un'altra ex An, Adriana Poli Bortone. Gli unici candidati forzisti sicuri sono nel triangolo rosso Emilia-Toscana-Umbria, mentre in Liguria si ripresenta Sandro Biasotti, uomo di Scaiola che però non è un elemento organico al partito (come Formigoni del resto). Per capire al meglio come stiano le cose basta leggersi un bell'articolo di Ilvio Diamanti su La Repubblica della scorsa domenica: il non partito del Pdl è nel caos e per sopravvivere è indispensabile una non opposizione. Cosa che non manca. In Lazio, ad esempio, il Pd ha ufficializzato la candidatura di Emma Bonino come sfidante della Polverini: una scelta dubbia e che personalmente reputo incondivisibile, ma che (forse) può rappresentare la svolta di questa situazione politica. La Bonino, infatti, da radicale purista, è senza dubbio più liberale e liberista della Polverini, ma dopo diversi anni di militanza nel Centro Sinistra ormai è di casa: i valori economici e sociali di cui è portatrice sono perfettamente integrati nel panorama ideologico dei cespugli che prosperano intorno all'ombra del Pd. Il suo cavallo di battaglia preferito è la lotta sui diritti civili e questo l'accomuna all'estrema sinistra social comunista, da cui, in realtà, è separata da molto altro. Ecco perché se al Pdl una correzione sociale non va giù, al Pd, invece, una deriva radicale non guasta. E qualche pidiellino non esclude nemmeno di votarla. Di una cosa sono sicuro, però. L'Udc ha fatto benissimo a siglare un patto personale esclusivamente con Renata Polverini e non con il Pdl. A cui, evidentemente, l'attributo di "partito di plastica" non bastava. Quello di non partito suona più chic.

venerdì 8 gennaio 2010

Il Pd. Ovvero lo Psico Dramma collettivo

Pd non sta per Partito Democratico. Sta per Psico Dramma. E' un partito nel caos più totale, in cui regnano soltanto interessi politici e di potere incrociati. Finito risucchiato nel vortice delle primarie, la creazione prodiana di andava tanto fiero. Costretto a inseguire l'Udc, l'ultra sinistra e, cosa incredibile, i Radicali. In cui il Segretario Bersani, legittimato dal voto solo qualche mese fa, rischia di perdere la "cadrega", senza nemmeno rendersene conto. Se non fosse un partito, lo si potrebbe scegliere come soggetto per una commedia di Totò. O una tragedia? Arturo Parisi non ha dubbi: il progetto con cui il Pd era nato è stato tradito in modo palese. Tutta colpa del solito D'Alema, che il prof prodiano definisce "professionista del se po fa che ricalca Andreotti"? Di sicuro l'indecisione di Bersani (e di chi c'è dietro di lui) sta rischiando seriamente di trasformare le prossime elezioni regionali in un plebiscito per il Centro Destra. La Puglia, che dopo le elezioni amministrative dello scorso anno sembrava il laboratorio di un nuovo Centro Sinistra, si è ridotta a una terra insanguinata dalla faida tra il vanesio Vendola e il Pd, che pur di recuperare l'Udc, ha schierato prima Emiliano e ora Boccia. Sempre in nome dell'unità. E che invece non fa che accentuare le divisioni e le incomprensioni. Ci mancava solo il Lazio, dove la candidatura della Bonino, lanciata come l'ennesima provocazione radicale, è diventata una cosa seria. E Nicola Zingaretti, che proprio di scendere in campo non ne voleva sapere, ha colto la palla al balzo: "Emma è quella giusta". Ma per chi, vorrei dire io? Per i gruppuscoli di sinistra, senza dubbio. Basta leggere l'incipit dell'editoriale di Sandro Medici sul Manifesto di oggi:
Per la prima volta nei territori dell'ex stato pontificio si tratterebbe di ingoiare un rospo non centrista.
Più chiaro di così? Ma ai cattolici (quelli veri intendo, non le vecchie volpi) va davvero bene così? Direi proprio di no. Se un ultra moderato come Pierluigi Castegnetti, che si è sempre tenuto ai margini della questione, ha pronunciato chiaro il suo no a una candidatura radicale, allora il problema non è più solo dei Teodem. C'è qualcosa di più grande e di più serio. Qualcosa che i dirigenti, evidentemente distolti da altro, non riescono a percepire. Si parla tanto di scissione dei cattolici, ma non ci si è ancora resi conto che è già iniziato un lento ma inesorabile esodo silenzioso? Non passa giorno che un consigliere comunale o provinciale o regionale non abbandoni la nave democratica, per raggiungere i lidi moderati dell'Udc (o di Api). Ultimo, in ordine di tempo, il passaggio di Pasquale Sommese, consigliere regionale campano già Rinnovamento Italiano e poi Margherita (soltanto lui ha preso 96 mila voti alle Europee), che ha scelto l'Udc. E come lui tanti altri. Mi sa che al Pd piace perdere. Gli piace proprio tanto.