Portare Internet dentro la Costituzione italiana, sarebbe una vera e propria rivoluzione copernicana. In un momento in cui molti parlano (spesso a proposito) di ammodernare la nostra Carta costituzionale, modificando l’ordinamento della Repubblica o inserendo propositi federalisti, sono convinto che una proposta del genere vada senza dubbio supportata: certo, bisogna valutare con grandissima attenzione come ammodernare i vecchi principi (specialmente in materia di manifestazione del pensiero e fruizione del patrimonio informativo e culturale), evitando di inserire norme destinate ad essere superate rapidamente. Una Costituzione è lo specchio di una società: lo era sessanta anni fa e lo è anche oggi. È innegabile però che l’Italia del 2010, globalizzata e moderna, sia assai diversa da quella del 1948, ancora contadina e appena uscita dalla guerra: siamo cambiati notevolmente e non si può negare che l’avvento delle nuove tecnologie abbia determinato trasformazioni che non hanno eguali nella storia recente. Scopo di questa proposta, è quello di favorire un accrescimento e un conseguente miglioramento del numero di libertà fondamentali garantite dallo Stato italiano.
giovedì 1 luglio 2010
E se si “costituzionalizzasse” il libero accesso a Internet?
martedì 22 giugno 2010
Vivissimi e reiterati applausi!
«Ma poi, o signori, quali farfalle andiamo a cercare sotto l’arco di Tito? Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questaAssemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica ditutto quanto è avvenuto. (Vivissimi e reiterati applausi — Molte voci: Tutti con voi! Tutti con voi!) Se le frasi più omeno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda; se il fascismo non è stato che olio diricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! (Applausi).Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere! (Vivissimi eprolungati applausi — Molte voci: Tutti con voi!)»Benito MUSSOLINI, Discorso del 3 gennaio 1925(da Atti Parlamentari – Camera dei Deputati – Legislatura XXVII – 1a sessione – Discussioni – Tornata del 3 gennaio 1925Dichiarazioni del Presidente del Consiglio)
mercoledì 16 giugno 2010
Ora si faccia pulizia. Seria.
Al di là dell'accertamento dei fatti, che ci auguriamo avvenga al più presto - afferma Cesa in una nota - la condotta morale tenuta da Salvatore Cintola, che già da tempo con le sue scelte politiche si era di fatto collocato fuori dall'Udc, appare incompatibile con i valori dell'Unione di Centro e rende improponibile la sua permanenza nel nostro partito.Come si vede da questa vicenda - conclude Cesa - facciamo bene a difendere la possibilità dei magistrati, in collaborazione con le forze di polizia, di avvalersi delle intercettazioni, che sono uno strumento fondamentale per la lotta alla criminalità.
Parole sante quelle di Cesa, finalmente qualcuno ha avuto il coraggio di pronunciarle. Ora si faccia pulizia. Seria.
Se davvero si vuole costruire un nuovo partito e se davvero si vuole cominciare a fare una nuova politica che abbia come unico interesse il bene della Nazione allora è giunto il momento di smettere di auto assolversi e di difendere l’indifendibile e di essere uomini e donne con la schiena dritta che sanno pronunciare coraggiosi e chiarissimi “no” che hanno il coraggio di decisioni limpide e forti. Forse si perderà qualche voto del ras di turno, ma si guadagnerà certamente in credibilità e forse il voto di tutti quei liberi, forti e giusti che in questo momento attendono una nuova possibilità di tornare a fare politica, di tornare a servire il Paese.
Update/1: Fantastico Adriano Frinchi su Estremo Centro Sicilia.
martedì 15 giugno 2010
I understand HOW, I don’t understand WHY
Se io, Giuseppe Portonera, studente, dico a mia madre che per cena voglio un panino al salame e non al prosciutto o se confesso di essermi innamorato, voglio che questo resti privato. Tra me, semplice cittadino, e il mio interlocutore, stop. Ma se per caso (per assurdo) io non fossi più io, ma un onorevole deputato della Repubblica e dovessi essere intercettato mentre discorro amichevolmente con un noto boss locale o mentre stipulo alleanze e contratti assai torbidi con importanti pezzi del mondo affaristico, quella discussione non può più restare privata. Perché io non sono deputato al Parlamento per rappresentare me stesso e i miei intrallazzi, ma perché rappresento gli interessi della mia gente. Non appena instauro questo rapporto intersoggettivo tra me e i miei elettori, allora non posso avere più segreti: deve essere un mio irrinunciabile compito garantire la massima trasparenza del mio modo di agire. A quel punto, di cosa dovrei aver timore?
venerdì 11 giugno 2010
Without words
Per esprimere al meglio quanto grande sia la mia disillusione e demotivazione a seguito dell’approvazione del disegno di legge sulle intercettazioni, voglio raccontarvi la mia settimana in tre momenti.
Primo momento. Sabato scorso ho firmato, in una libreria Feltrinelli, l’appello contro la “legge bavaglio”. L’ho fatto, da moderato, in un luogo storicamente di sinistra perché, lo dico chiaramente, questa legge mi fa orrore. E non lo dico per partito preso o perché antiberlusconiano: lo dico da semplice cittadino di uno Stato liberale, consapevole che una legge tale, seppure con lo scopo dichiarato di difendere il diritto alla privacy di ciascuno di noi (?), finirebbe solo per renderci tutti meno liberi, privati della possibilità di conoscere per tempo gli scandali e le illegalità di cui si macchiano i nostri potenti. Lo dico da ragazzo sedicenne che ha ancora voglia di credere che un’Italia migliore sia ancora possibile, dove il popolo possa riscoprire l’entusiasmo per i propri amministratori, senza però perdere la possibilità di poterli controllare anche dopo averli votati. Lo dico, lo scrivo, ma mi ritrovo con una delusione amara.
Secondo momento. Fino a mercoledì scorso, riponevo ancora molte speranze nel cosiddetto gruppo dei finiani, specie dopo l’annuncio del voto di fiducia. Ero convinto, sotto sotto, che il gruppo di Gianfranco Fini avrebbe lottato fino alla fine e che, visti le decine di appelli alla legalità e all’onesta, si sarebbe rifiutato di votare una porcheria simile. E invece, anche adesso, mi ritrovo con un palmo di becco. Unica consolazione: sapere che il braccio intellettuale di Fini (Fare Futuro) e un deputato mio conterraneo che stimo molto (Fabio Granata) hanno ammesso che questa legge non può proprio essere digerita. Almeno loro. Altra consolazione (e motivo d’orgoglio)? Le parole del presidente Casini (“questa legge non mi piace”) e l’annuncio del voto contrario dell’Udc. Spero almeno che questa vicenda possa essere la pietra tombale sulla possibilità di riaccendere i rapporti con il Centro destra: almeno con questo Centro destra a trazione berlusconian-leghista.
Terzo momento. Oggi. Ho una specie di senso di vuoto. Stamattina sono uscito a comprare il giornale e, come ogni venerdì, ho preso La Repubblica: sono stato qualche secondo a fissare la sua copertina bianca. Il “semplice” post-it giallo era più eloquente di qualsiasi editoriale, commento o appello. La frase “la legge bavaglio nega il diritto di essere informati” mi si è scolpita in mente e nel cuore e, sebbene inizialmente mi abbia fatto constatare quanto fossimo scesi in basso, mi ha poi fatto capire che ora è il nostro turno. Il turno di ogni semplice cittadino, sia esso di destra, di centro, di sinistra o anarchico. Purché abbia come propria stella polare la legalità e il rispetto delle regole. Sono tornato a casa, ho acceso il computer e ho fatto tutto quello che era in mio potere: cambiando la foto e lo stato personale del mio Facebook e scrivendo questo pezzo. Ho esercitato, nel mio piccolo, il diritto ad oppormi a una legge che non condivido e che rigetto. Finché posso ancora farlo.
mercoledì 12 maggio 2010
Conservare e innovare, si può fare
L’ottimo sito Scenari Politici ha pubblicato ieri un interessantissimo sondaggio sul voto politico italiano diviso per fasce sociali e occupazionali, utile per leggere a fondo le ultime evoluzioni del nostro quadro politico. Dal sondaggio emerge che il Centro destra è in netto vantaggio tra gli agricoltori, gli artigiani e i lavoratori autonomi; in misura minore tra operai, casalinghe, pensionati, dirigenti e professionisti; il Centro sinistra, invece, va forte tra gli impiegati, più nel pubblico che nel privato, e bene anche tra gli studenti; mentre il nostro partito, l’Udc, conquista una discreta fetta di consensi tra gli agricoltori, gli artigiani, le casalinghe e i pensionati (categorie queste da sempre vicine alle istanze cattolico democratiche) e ottiene, non senza fatica, un 6 per cento tra gli studenti, in linea con il dato nazionale finale. Male invece tra i disoccupati, gli impiegati pubblici e privati, i dirigenti e i professionisti (con un dato oscillante tra il 4 e il 5 per cento). Analizzando quindi il dato è chiaro che il core business resta sempre quello di derivazione Dc: forte al Sud, specie nei piccoli Comuni a trazione agricola e vicino ai contadini e agli agricoltori. Ormai che la nascita del Partito della Nazione sembra essere alla porte, questo sondaggio può essere fonte di ispirazione critica per la costruzione del nuovo partito. Casini lo ha presentato dicendo che bisogna rivolgersi “a tutti quegli italiani che vogliono starci. Il resto non ci interessa. C’è bisogno di ricostruire un sentire comune tra tutti gli italiani, c’è bisogno di una grande pacificazione nazionale e di proposte di buon senso. Non c’è da conservare l’esistente, ma c’è da cambiare”. Ora, il cambiamento è sempre una pratica auspicabile, ma rischia di diventare ambigua se non gestita correttamente. Che vuol dire cambiare? E soprattutto, può il cambiamento combinarsi e armonizzarsi con la conservazione? Secondo me, sì. Non vedo perché la nascita del nuovo partito debba essere per forza sinonimo di rimozione: il nostro compito, in questa delicata fase di gestazione, deve essere quello di preservare il nostro patrimonio culturale e politico e farlo confluire in un quadro più ampio e importante. Non serve a nessuno nascondersi dietro un dito: l’Udc è un partito centrista e democristiano che ha a lungo percorso il luminoso sentiero del popolarismo sturziano e degasperiano. Oggi leggevo di alcuni volontari che quasi “auspicavano” (mi sia concesso dirlo) un abbandono del simbolo dello Scudo Crociato, visto come un’“eredità che certe volte è troppo ingombrante e troppo limitante”. Non è affatto così, perché quel simbolo non significa solo democristianità, ma rappresenta valori e ideali politici che non possiamo permetterci di buttare a mare! Ho letto anche di chi definiva Don Luigi Sturzo un grande statista, ma ormai passato. Sicuri? Basta leggere qualcosa dei suoi scritti per rendersi immediatamente conto che non è così, che le riforme che il sacerdote calatino propugnava quasi cento anni fa sono quanto di più attuale possa esistere. Scuola, società, politica, regioni: l’Italia di Don Luigi potrebbe essere un’Italia cento volte migliore di quella di oggi e di quella che una parte dei nostri governanti vorrebbe disegnare. Perché, come non si stanca mai di ripetere il filosofo Dario Antiseri, don Sturzo è stato il pensatore cattolico-liberale più luminoso e acuto del nostro secolo, non adeguatamente studiato e approfondito. Farò una proposta controcorrente: riscopriamolo e riacquistiamo i suoi insegnamenti, attualizzandoli e valorizzandoli. Senza dimenticare lo sguardo al futuro. Per questo, rapidamente e umilmente, tenterò di tracciare una road map del da fare. Prima di tutto, se vogliamo davvero diventare maggioranza, dobbiamo radicarci sul territorio: l’Udc può infatti contare su un discreto numero di truppe, spesso guidate, però, da generali opportunisti. Ce ne siamo resi conti chiaramente alle ultime elezioni regionali: non appena si fa una scelta diversa e rischiosa, sono in molti quelli a salutarci. Serve quindi un ritorno tra la gente, con i porta a porta, i comizi di un tempo, le sezioni fortemente strutturate e la produzione di proposte serie, concrete e realizzabili (capaci di conquistare non solo gli agricoltori, ma anche e soprattutto la classe media). Secondo: aprirci alle varie realtà dell’associazionismo laico e cattolico. Terzo: superare definitivamente la forma partito UDC che abbiamo conosciuto finora; ormai è un limone spremuto, più di questo non può dare. Se si continua a procrastinare la nascita del nuovo partito di Centro, saremo condannati alla sconfitta perpetua: ecco perché spero che Todi sia davvero l’inizio di un cammino rapido e proficuo. È da più di un anno che si parla del fatidico congresso che segnerà il compimento della Costituente di Centro. Ma ogni volta che la data fissata si avvicina, questa scivola lentamente e inesorabilmente: prima era stato annunciato per dicembre dell’anno scorso, poi è passato ad Aprile di quest’anno, ora è fissato per il prossimo autunno. L’Udc può rappresentare, l’embrione, il punto da cui ripartire per costruire un nuovo partito, moderno ed europeo, occupando uno spazio che vada da Fini a Follini, passando per Tabacci, Rutelli, Pisanu, Dellai e Fioroni. Ma un partito così ha senso se riesce non tanto a staccare correnti o pezzi di nomenklatura ai partiti maggiori, quanto a raccordarsi con i settori poco rappresentati nella politica attuale. Con i lavoratori dipendenti stanchi di essere superati in autostrada dai Suv degli evasori cui pagano le medicine e le scuole ai figli, indignati con un governo pronto a varare condoni e scudi vari e delusi da una sinistra che nel 2006 aumentò l’aliquota Irpef proprio al ceto medio dipendente; con i giovani professionisti delusi da una politica gerontocratica e gerontofilia, incapace di ascoltarli; con le famiglie, numerose e non, al centro di continui proclami e spot, rimaste in attesa del miraggio del quoziente familiare. Il nuovo partito dovrà essere quindi in grado di stipulare un’alleanza forte e coerente con i ceti e le categorie che rappresentano la vera ricchezza d’Italia e che invece non sono adeguatamente rappresentate. Molti italiani trarrebbero vantaggio da una politica che premiasse il merito e imponesse la responsabilità, che riconoscesse i diritti e facesse rispettare regole e doveri. Quarto e ultimo: valorizzare le nostre energie giovani, fuori da vecchi e superati schieramenti partitici e ideologici, ma capaci di attualizzare e valorizzare le nostre idee e i nostri valori guida. Perché, non dimentichiamocelo mai, si può conservare e innovare, senza che uno escluda l’altro.
martedì 11 maggio 2010
La scuola, i mezzi e la libertà che non c'è
venerdì 9 aprile 2010
Paragone, Zaia e i vergognosi pregiudizi leghisti
Il termine pregiudizio (dal latino prae, "prima" e iudicium, "giudizio") può assumere diversi significati, tutti in qualche modo collegati alla nozione di "giudizio prematuro" (cioè parziale e basato su argomenti insufficienti e su una loro non completa o indiretta conoscenza). Nel linguaggio della psicologia sociale, quando si parla di pregiudizi ci si riferisce a un tipo particolare di atteggiamenti, spesso di intolleranza e di insofferenza che possono addirittura sfociare in vergognosi atti di razzismo. Spesso pregiudizio fa rima con ignoranza, perché si ha paura dell'altro, dell’altra cultura, specie quando la si conosce poco. Quasi ogni giorno sui vari TG, ad esempio, sentiamo di poveri immigrati picchiati soltanto perché “negri”, cioè con un colore di pelle diverso dal nostro, o accusati di essere pericoli pubblici per la nostra stabilità sociale solo ed esclusivamente perché poveri e senza lavoro. Oppure si sente dire che le città con un alto tasso di immigrazione sono le più pericolose, facendo così di tutta l’erba un fascio e finendo per far confusione tra criminali e gente onesta. Ciò che certamente fa più male poi, è il fatto che qualcuno, che si propone come amministratore e che quindi dovrebbe non solo assecondare il popolo, ma educarlo prima di tutto, si lasci andare alla demagogia e al populismo, cavalcando le legittime paure della gente e fomentando l’odio nei confronti del diverso. Come lo sceriffo Gentilini, che a suo tempo se ne uscì con frasi vergognose come « Voglio la rivoluzione contro i campi dei nomadi e degli zingari. Io ne ho distrutti due a Treviso. E adesso non ce n'è più neanche uno. Voglio eliminare i bambini che vanno a rubare agli anziani. Se Maroni ha detto tolleranza zero, io voglio la tolleranza doppio zero». E altre cose del genere che non meritano nemmeno di essere ripetute. Ma c’è una cosa che mi ha stupito ancora di più: che nell’Italia che l’anno prossimo festeggerà i 150 anni dalla propria fondazione, ci siano ancora episodi di intolleranza nei confronti dei cittadini del Sud. Non mi credete? Ve lo dimostro subito: qualche giorno fa, il 2 aprile con esattezza, prima di coricarmi ho guardato la puntata del programma condotto da Gianluigi Paragone, giornalista e vice direttore del TG1. La puntata era di un’indecenza inammissibile: già dal titolo, “Italie”, devo dire che sospettavo qualcosa: ma quello che ho visto e che ho sentito, proprio non me lo sarei aspettato. La puntata infatti ruotava tutto intorno alla volontà di dimostrare che vivere al Nord è molto meglio che farlo al Sud. Perché nella ricca e fertile Padania i cittadini sono modelli viventi di ordine e legalità, mentre noi terroni siamo soltanto dei mafiosi e degli sbruffoni. O almeno così la pensa il neo governatore veneto, Luca Zaia, che facendosi forte di strampalate classifiche e di vergognosi luoghi comuni, ha quasi dato del mafioso agli operai Fiat di Termine Imerese. Carissimo ministro Zaia, ma in che mondo vive? O è soltanto completamente impazzito? Lei crede davvero che tra un operaio Veneto e uno della Sicilia ci possano essere delle differenze? O magari, come ha sostenuto, tra uno spacciatore di Palermo e uno di Treviso? Tra un universitario veneto che il venerdi sera con il SUV del padre, dopo essersi ubriacato e drogato, e un suo collega siciliano, che magari passa il weekend a casa? Non esiste nessun’altra Italia, né tantomeno una fantomatica Padania. Esistono solo odio e ignoranza, ma di questo voi non vi siete resi conto. Chissà come mai.
sabato 3 aprile 2010
Il futuro del Centro e il bipolarismo straccione
Piero Ostellino, sul Corriere della Sera di giovedì scorso, ha scritto un lucido e spietato fondo, dal titolo “L’illusione dei centristi”, in cui vuole dimostrare che nel nostro sistema politico, ormai profondamente bipolarizzato, non può esserci spazio per iniziative di stampo centrista e moderato. Per Ostellino, infatti, la scelta dell’Udc di Casini di proporsi come gamba ora dell’uno ora dell’altro schieramento, ha finito per condurlo a una situazione di “subalternità politica e un annacquamento della propria identità etico-politica”. Sforzo vano, visto che “le due grandi forze bipolari sono in grado di conquistare autonomamente voti al centro”. Ho già analizzato precedentemente i risvolti virtuosi di una politica che punti dritta al Centro. Già il grande filosofo cattolico Augusto Del Noce, d’altronde, aveva distinto due modi di fare Centro: da una parte, il compromesso, la prassi che prende il posto dei principi e degli ideali, un partito senza filosofia e senza religione che si pone solo come punto d’incontro neutro generato dall’affievolirsi di due spiriti. Un’aggregazione senza grandi passioni che promette un benessere tranquillo e vive prevalentemente sull’inadeguatezza degli altri partiti. Insomma, la “palude” della Rivoluzione Francese. Dall’altra, il “Centro” inteso come luogo della restaurazione dei principi che non punta alla dissociazione di teoria e pratica, bensì all’apertura del nuovo orizzonte dell’eternità dei valori della persona per un nuovo umanesimo politico; che diventa nella visione di Del Noce addirittura una fedeltà creatrice. Il progetto politico di cui è sponsor principale l’Udc deve necessariamente aderire a questa seconda visione: la volontà di aggregare di tutti i moderati, siano essi di ispirazione cattolica o liberale, deve trovare la sua spinta nell’esclusiva progettazione di un vasto partito nazionale e centrista, che vada dai piedellini insofferenti ai moderati delusi del PD, aggregando i vari Rutelli, Tabacci e Buttiglione. Il fondo di Ostellino, però, ci offre anche altri spunti di riflessione, primo fra i quali il posto che un partito così potrebbe occupare in un sistema bipolare. Le recenti elezioni ci hanno dimostrato che, seppur in modo limitato, l’Udc (dove ha scelto la corsa in solitario) è riuscito a ritagliarsi uno spazio tra i due grandi blocchi, con risultati oscillanti tra il 4 per cento delle zone rosse e il 9 della Puglia. Un risultato dignitoso se si considera che ha lottato ad armi impari e che gli altri possibili azionisti moderati sono rimasti al sicuro dentro le rispettive caserme, ma che ci costringe a riflettere su come allo stato attuale, i centristi da soli possano fare ben poco. Il rischio concreto, infatti, è quello di essere condannati all’irrilevanza, specie quando l’esito della contesa appare scontato, come in Lombardia, dove il povero Pezzotta ha raggranellato soltanto uno scarso 5 per cento dei consensi. Ma è un rischio che deve essere corso, se si vuole davvero aggiungere la meta. Questo non può più essere il tempo delle attese. Deve essere il tempo delle risposte. Per farlo bisogna subito riaprire il dialogo con chiunque sia autenticamente convinto ad aprirlo e che non ce la fa a riconoscersi nella sinistra esistente in Italia, conservatrice e giustizialista, incapace di rompere davvero con le terribili ideologie e mitologie del Novecento, o con chi, simmetricamente, vive con grave difficoltà il proprio fare politica nel centrodestra ormai profondamente leghizzato. Come però fa attentamente notare Ostellino, è difficile sfuggire alla domanda sul perché oggi possa nascere, sopravvivere e affermarsi un Grande Centro, dopo tutti i fallimenti registrati finora. Qualche risposta però si può tentare di darla. Prima fra tutte, le sostanziali incompatibilità che si sono venute a creare tra i vari moderati e gli estremisti-populisti sia nel PDL che nel PD: ad oggi c'è un'interlocuzione, uno scambio, un’attrazione possibile tra l’area liberale e cattolica del PDL (rappresentata rispettivamente da Fini e da Pisanu) e l’area ex dc e moderata del PD, con un Centro dotato di una forte capacità attrattiva. Ecco perché servono programmi, progetti e proposte, che siano seri, costruttivi e concreti. Uno di questi potrebbe essere l’attivazione di un tavolo a livello nazionale (con la possibilità di sezioni territoriali) dove nessuno sia costretto a dover rinunciare preventivamente alle proprie appartenenze politiche, dove il reciproco rispetto della legittimità delle altrui opinioni politiche sia il fondamento di una ricerca serena e costruttiva di soluzioni, il più possibile condivise, dirette al conseguimento del bene comune. Un tavolo caratterizzato dalla comunanza dei principi della Dottrina Sociale Cristiana e che possa riconoscersi nelle encicliche sociali, come l’ultima Caritas in Veritate. Un luogo libero e franco, in cui lavorare insieme alle associazione culturali e alle varie espressioni del laicato e dell’associazionismo cattolico. Un tavolo da costruire subito, tutti insieme, per evitare di diventare soprammobili e ornamenti di un Bipolarismo straccione.
Aggiornamento/1: La risposta a Ostellino di Marco Follini (una pecorella smarrita forse pronta a tornare all'ovile?)
Aggiornamento/2: La risposta di Adornato a Ostellino
mercoledì 31 marzo 2010
Le quattro parole d'ordine
Diciamocelo chiaramente: queste elezioni non sono andate bene. Certo, sarebbero potute anche andare peggio, ma non per ora non c'è nulla di cui andar fieri. L’Udc è ancora lì, fluttua intorno al 6 per cento e non riesce ad assorbire fette consistenti dell'elettorato moderato del PDL, perdendo anzi punti percentuali non appena fa una scelta coraggiosa (e un po’ azzardata) come quella piemontese. Naturalmente bisogna sottolineare il fatto che non si sia votato né in Sicilia, né in Sardegna, bacini elettorali tradizionalmente vicini e favorevoli, ma resta il fatto che i grandi scopi che eravamo prefissi, quello di diventare un argine alla Lega al Nord e di assestare un duro colpo al bipolarismo, sono falliti. Nelle regioni settentrionali, infatti, l’Udc, nonostante abbia scelto di non entrare a far parte di nessuna alleanza che includesse la Lega, ha visto le proprie percentuali o restare deboli o addirittura diventare irrisorie. Andando per ordine, infatti, dove abbiamo scelto la corsa in solitaria (onore e un abbraccio a Pezzotta e De Poli che si sono battuti come leoni) ci siamo arenati intorno a una media del 5,5 per cento, non riuscendo ad attrarre i voti degli elettori pdl stanchi della sudditanza leghista (forse perché non ce ne sono); dove poi abbiamo scelto il Centro Sinistra è andata anche peggio: in Piemonte e in Liguria, infatti, abbiamo raggranellato una media del 4 per cento, con conseguente sconfitta della Bresso. Un disastro. Nelle regioni rosse (ma questo era ovvio) ci siamo fermati al 4. Al Sud, poi si prende finalmente aria, ma si ingoia il rospo (quasi) amaro pugliese, con la buona affermazione della Poli Bortone, che non ha fatto raggiungere il 50 per cento a nessuno dei due candidati, ma con l’Udc che è sceso dal 9,5 delle ultime europee al 6,5. Capitolo a parte merita poi il Lazio, in cui, ironia della sorte, si è risentito maggiormente l’eco dell’appello dei vescovi, con gli elettori che ci hanno negato l’exploit a causa del nostro eccessivo ondivagare. Che a mio avviso, è stata la vera causa per cui, anche a queste elezioni, non siamo riusciti a sfondare. Siamo stati percepiti, infatti, essenzialmente come un partito di opportunisti, pronto a schierarsi a destra o a sinistra a seconda della convenienza e del numero di poltrone disponibili. Quasi nessuno ha creduto alla seria volontà di non farsi cooptare in uno schieramento piuttosto che in un altro, anche perché ormai gli Italiani hanno il cervello bipolare e convincerli che questo non sia un bene, è cosa ben difficile. Meglio allora sarebbe stato prendere una posizione unica e univoca sin dal principio, andando soli ovunque. Zero assessori, è vero, ma cento per cento di credibilità. Ormai non ci si può fare nulla, è andata come è andata (che sia l’ultima volta, però, sia chiaro). Possiamo soltanto guardare al futuro e sperare di non commettere nuovi errori. Per questo, rapidamente e umilmente, tenterò di tracciare una road map del da fare. Prima di tutto, serve radicamento nel territorio: l’Udc può contare su un discreto numero di truppe, spesso guidate, però, da generali opportunisti. Ce ne siamo resi conti chiaramente: non appena si fa una scelta diversa e rischiosa, sono in molti quelli a salutarci. Vedi Scanderebech in Piemonte, ad esempio. O molti altri nelle altre regioni. Unica consolazione: a loro è andata peggio che a noi, segno che in un centrodestra leghizzato non può esistere un centro moderato autonomo. Serve quindi un ritorno tra la gente, con i porta a porta, i comizi di un tempo, le sezioni fortemente strutturate e la produzione di proposte serie, concrete e realizzabili. Secondo: aprirci alle varie realtà dell’associazionismo laico e cattolico. Terzo: superare definitivamente la forma partito UDC che abbiamo conosciuto finora; ormai è un limone spremuto, più di questo non può dare. Se si continua a procrastinare la nascita del nuovo partito di Centro, saremo condannati alla sconfitta perpetua. È da più di un anno che si parla del fatidico congresso che segnerà il compimento della Costituente di Centro. Ma ogni volta che la data fissata si avvicina, questa scivola lentamente e inesorabilmente: prima era stato annunciato per dicembre dell’anno scorso, poi è passato ad Aprile di quest’anno, ora è fissato per il prossimo autunno. E intanto perdiamo la presa sui possibili partner di questo cammino: con Alleanza per l’Italia non siamo riusciti a costruire un’alleanza stabile neppure su tutte le regioni, mentre con i popolari del PD e i moderati del PDL il dialogo sembra essersi bruscamente interrotto. L’Udc può rappresentare, l’embrione, il punto da cui ripartire per costruire un nuovo partito, moderno ed europeo, occupando uno spazio che vada da Fini a Follini, passando per Tabacci, Rutelli, Pisanu, Dellai e Fioroni. Ma un partito così ha senso se riesce non tanto a staccare correnti o pezzi di nomenklatura ai partiti maggiori, quanto a raccordarsi con i settori poco rappresentati nella politica attuale. Con i lavoratori dipendenti stanchi di essere superati in autostrada dai Suv degli evasori cui pagano le medicine e le scuole ai figli, indignati con un governo pronto a varare condoni e scudi vari e delusi da una sinistra che nel 2006 aumentò l’aliquota Irpef proprio al ceto medio dipendente; con i giovani professionisti delusi da una politica gerontocratica e gerontofilia, incapace di ascoltarli; con le famiglie, numerose e non, al centro di continui proclami e spot, rimaste in attesa del miraggio del quoziente familiare. Il nuovo partito dovrà essere quindi in grado di stipulare un’alleanza forte e coerente con i ceti e le categorie che rappresentano la vera ricchezza d’Italia e che invece non sono adeguatamente rappresentate. Molti italiani trarrebbero vantaggio da una politica che premiasse il merito e imponesse la responsabilità, che riconoscesse i diritti e facesse rispettare regole e doveri. Quarto e ultimo: valorizzare le nostre energie giovani, fuori da vecchi e superati schieramenti partitici e ideologici, ma capaci di attualizzare e valorizzare le nostre idee e i nostri valori guida. Sono queste le parole d’ordine da cui dobbiamo ripartire. E che non possiamo assolutamente permetterci di dimenticare. Chiaro?
mercoledì 24 febbraio 2010
L'Italia che muore affogata nelle tangenti
Ma che Italia è quella di oggi? Quella delle mazzette 2.0, dei mariuoli diventati birbantelli? Delle mafia dentro le scalate alle banche e dentro alle urne? E davvero la Seconda Repubblica sconterà la colpa di essere nata, morendo allo stesso modo, travolta da mazzette e tangenti? Pare proprio di sì. Perché gli scandali di questi giorni sembrano essere solo l’anticamera di un ritorno in grande stile del periodo delle retate giudiziarie che hanno seppellito 50 anni di politica e di partiti, lasciando però intatti corruzione e illegalità che oggi si ripropongono con forza. Come nel '92, peggio del '92. L'Italia degli anni dieci si guarda allo specchio e scopre un panorama di macerie morali come suo sfondo. Una nuova Tangentopoli? «No, peggio - dice il presidente della commissione antimafia Beppe Pisanu - allora crollò il sistema del finanziamento dei partiti, oggi è la coesione sociale, la stessa unità nazionale a essere in discussione. Si chiude l'orizzonte dell'interesse generale e si aprono le cateratte dell'interesse privato, dell'arricchimento personale, della corruzione dilagante». Un quadro di pura decadenza, in cui le tinte forti del malaffare diventano la cornice di un sistema giunto ormai al collasso, che rischia, inoltre, di trascinare metà Paese nella sua rovinosa caduta. Ma chi volevamo prendere in giro? Quando Tangentopoli ha distrutto DC, PSI e company, ne ha soltanto gambizzato la classe dirigente, che, pur in tutto il male commesso, restava sempre fine e competente: in questo modo si sono aperte le porte per le seconde, terze e quarte file di politici, per i partiti e partitini personali e per quel Bipolarismo-Bipartismo che ci ha ingabbiato in una polarizzazione degli estremi e degli estremismi. Con buona pace del sogno di legalità e di meritocrazia che ha animato intere generazioni di giovani impegnati. Tenterà la politica, ancora una volta, di salvare la stessa? Davvero, come ripeteva Gramsci, la “piccola politica”, volta al compromesso e all’equilibrismo, sopraffarà la “grande politica” e con essa la volontà di costruire un futuro diverso? Temo di sì. E allora a nulla valgono gli ipocriti appelli alle “liste pulite”, al rinnovamento e alla pulizia, perché quello che sedici anni fa era praticato con sotterfugi e mezzucci vari, ora è invece pane quotidiano per il Potere: torbidi e maledetti intrecci tra politica, alta finanza e mafia che avviluppano il nostro sistema in uno scambio continuo e costante tra mazzette e favori, riciclaggi e leggine. Mi viene la pelle d’oca solo a pensare che un senatore sia in Parlamento perché eletto con i voti della mafia e perché portaborse di un elettricista divenuto finanziere. E che ora si difenda pure, negando tutto, dopo che in un’intercettazione si sente chiaramente “tu sei il mio schiavo”. Addio Italia, addio.
giovedì 28 gennaio 2010
I teodem non sono finiti. Il loro futuro è con noi.
Nel bene e nel male (soprattutto) Paola Binetti è sempre protagonista delle vicende interne al PD. La psicologa numeraria dell’Opus Dei, 66 anni, voce suadente e catturante, infatti, non perde occasione per rimarcare la propria lontananza da diverse (praticamente tutte) scelte e posizioni del suo partito. Dopo essere stata la principale animatrice della corrente dei Teodem e dell’associazione Persone e Reti, la senatrice cattolica sembra ormai con tutte e due i piedi fuori dal partito. Negli ultimi giorni è stata vista a un pranzo con Pier Ferdinando Casini e Enzo Carra (ex suo sodale) e ieri si è intrattenuta in una lunghissima e fittissima discussione con Bruno Tabacci, portavoce dell’Alleanza per l’Italia. Pare che la sua fuoriuscita dal gruppo democratico sia ormai cosa fatta, mentre oscura rimane ancora il suo approdo: andrà direttamente nell’Unione di Centro, dove ad aspettarla ci sono già Carra, Lusetti e Bianchi, o si farà mediare da Rutelli e dall’Api? Di sicuro, nel frattempo, fa di tutto per ricordare al mondo che i Teodem non sono morti e lottano ancora. Oggi su Europa, infatti, insieme a Luigi Bobba, Enzo Carra, Marco Calgaro e Donato Mosella ha sottoscritto una lettera dal titolo molto forte: “I Teodem non sono finiti”. L’articolo nasce come risposta ad un altro pezzo, pubblicato sempre su Europa e a firma di Mario Lavia, secondo il quale all’origine della diaspora teodem non ci sia una questione cattolica, ma il disgregamento della componente rutelliana nel Pd, che dopo la fondazione di Alleanza per l’Italia, è rimasta orfana della sua guida e del suo padre nobile. Quello che colpisce, infatti, è che lo sfarinamento di questo gruppo alle prese vada di pari passo con l’esigenza di aggiornare la sua linea e di produrre una nuova e coerente proposta politica: i Teodem sembrano in piena crisi di identità. La loro volontà di difendere integralmente i principi del cristianesimo democratico cozza sempre di più con il profilo laico e a volte massimalista che il Pd sta assumendo. Molti se ne sono già andati e così lo “scioglimento al sole” del gruppo appare tanto più sorprendente in quanto riguarda una componente di cui tutto si può dire tranne che non fosse attrezzata e organizzata dal punto di vista culturale e morale. La “diaspora” assomiglia quindi di più ai tristi tramonti dei gruppetti politici che non ad un esito alto e consapevole: e pensare a quanto hanno contato in questi anni, dal punto di vista della discussione politica e culturale, nella vita prima della Margherita e poi del Pd, specialmente quando si trattava di votare provvedimenti in materia etica e sociale. La loro nascita risale alle elezioni del 2006, quando il card. Camillo Ruini invitò Francesco Rutelli a sistemare nelle liste della Margherita un gruppo di cattolici legati alle associazioni sociali di settore. L’ex sindaco romano, impegnato com’era a diventare il nuovo leader del cattolicesimo di popolo, accettò di buon grado la proposta ecclesiastica e blindò le varie candidature suggerite. La stessa situazione venne replicata nel 2008, ma è a seguito delle dimissioni di Walter Weltroni dalla segreteria del partito che i guai cominciano a farsi sentire, sino ad arrivare ad oggi e alla disperata lotta per la sopravvivenza. Con gli ovvi risultati che conosciamo: i deputati sono passati da 7 a 2 e i senatori da 5 a 4. Oggi la loro permanenza nel Pd non ha più senso: con il progetto di un nuovo partito moderato cosa si aspetta a compiere l’unica scelta saggia? Possono continuare ad avvallare le scelte radicali e comuniste che l’inerme dirigenza Pd ha compiuto in questi giorni? Quella ricca elaborazione culturale e morale, di cui si sono sempre fatti portatori può sopravvivere e fecondare solo un humus disposto ad accogliergli in funzione della loro identità e autonomia. I Teodem, che spesso possono essere sembrati troppo arroccati nelle loro posizioni, fedeli ai loro (che sono anche i nostri) principi, devono essere disposti a rimettersi in gioco all’interno di una cornice politica e sociale nuova e più vasta. Fuori dal Pd e dentro al Centro. È compito dell’Udc favorirne l’integrazione: il nuovo partito potrà nascere solo se saprà comunicare con il mondo dell’associazionismo laico e cattolico da cui provengono spesso i Teodem: le Acli, la Fuci, la Comunità di Sant’Egidio, le Coop bianche, l’intergruppo per la Sussidiarietà e le fasce più moderate di Comunione e Liberazione e dell’Opus Dei. Perché, infatti, quest’occasione non vada sprecata è necessario che all’appello non manchi nessuno. E tra questi un ruolo chiave lo rivestono proprio i Teodem.
domenica 24 gennaio 2010
Perché la fusione tra Udc e Api non può più attendere
giovedì 21 gennaio 2010
Perché l'Eco-fede esasperata non ci salverà
Avatar è un film stupendo. Su questo mi sembra non ci possano essere dubbi: James Cameron ha impiegato talmente tanti effetti scenici e artifici cinematografici da imprimere nella mente di guarda il film l’impressione che il magico mondo di Pandora, ultima oasi verde eco sostenibile, esista veramente. E così si finisce per perdere di vista (è proprio il caso di dirlo) il contesto e il vero significato dell’opera. Tutta la trama ruota intorno al marine disabile Jake Sully che, grazie alle meraviglie tecnologiche, occupa il corpo di un altissimo alieno di oltre 3 metri e viene inviato sul mitico pianeta Pandora alla ricerca di un fantastico minerale. Inevitabilmente, però, sceglie di schierarsi dalla parte dei nativi ed abbraccia l’eco-fede degli abitanti di Pandora e le loro dee degli alberi, le “madri di tutto”. Insieme agli aborigeni e al contributo dell’ecosistema pandoriano, decide quindi di combattere per la difesa del pianeta contro le forze malvagie e colonizzatrici del suo stesso popolo umano. Ed ecco dove sta l’inganno: il messaggio che il film rischia di far passare è quello esclusivamente ecologista e eco-centrista. Molti critici, specie americani, infatti, hanno definito Avatar “un’apologia del peggior panteismo”. La critica, mossa da Ross Douthat sul New York Times, colpisce il segno anche se è stato John Podhoretz, sul Weekly Standard, a sottolineare un punto ancora più importante. “Cameron” dice Podhoretz “ha scritto Avatar non per essere controverso, ma proprio per raggiungere lo scopo opposto: ha cercato di compiacere il maggior numero possibile di persone”. Ovviamente, questo sembra essere assurdo: ma è proprio così. Tutto il pianeta Pandora è infatti una specie di gigantesco catalizzatore di energia vitale, di cui ogni creatura pandoriana si nutre, sempre tesa ad ascoltare il respiro silenzioso e profondo della natura nella sua totalità. E come un’anima da cui prendono forma i singoli organismi, così Pandora diventa la Grande Madre che lega le sue creature tra loro in un afflato universale. Con una connessione tra creature che in certi casi avviene addirittura in modo fisico, attraverso un’unione di energia e materia dei corpi che ha un che di sessuale e di mistico insieme. Molto suggestiva, ma anche molto criticabile. In un’epoca in cui le religioni ufficiali e tradizionali, infatti, sono vittime di attacchi continui e ingiustificati, si sta diffondendo una nuova sorta di spiritualità, spesso laica e materialista, che, imbevuta di dottrine filosofiche orientali, si propina all’umanità come modello efficace per trascorrere serenamente la propria vita. E in questo contesto si inscrive perfettamente l’ecologismo, che ha finito per confondere la giusta battaglia per il rispetto dell’ambiente con una vera e propria fede: molti ambientalisti cercano di mutuare la loro causa in un imperativo morale, proprio come i Na’Vi. E non è un caso che Al Gore insista tanto nel dire che il riscaldamento globale è “una sfida spirituale all’umanità” e che la campagna elettorale di Obama, caratterizzata da un fortissimo sentimento verde, si sia incentrata su una sorta di mistica attesa religiosa per il “cambiamento”. Vale allora ricordare le parole che papa Benedetto XVI ha pronunciato in occasione della Giornata mondiale della Pace: “la questione ecologica non va affrontata solo per le agghiaccianti prospettive che il degrado ambientale profila all’orizzonte; a motivarla deve essere soprattutto la ricerca di un’autentica solidarietà a dimensione mondiale, ispirata dai valori della carità, della giustizia e del bene comune”. Perché a salvarci non sarà certo l’esasperato eco-centrismo.
giovedì 14 gennaio 2010
L'Idv. Forca Italia!
mercoledì 13 gennaio 2010
Il Pdl. Il non partito.
venerdì 8 gennaio 2010
Il Pd. Ovvero lo Psico Dramma collettivo
Per la prima volta nei territori dell'ex stato pontificio si tratterebbe di ingoiare un rospo non centrista.Più chiaro di così? Ma ai cattolici (quelli veri intendo, non le vecchie volpi) va davvero bene così? Direi proprio di no. Se un ultra moderato come Pierluigi Castegnetti, che si è sempre tenuto ai margini della questione, ha pronunciato chiaro il suo no a una candidatura radicale, allora il problema non è più solo dei Teodem. C'è qualcosa di più grande e di più serio. Qualcosa che i dirigenti, evidentemente distolti da altro, non riescono a percepire. Si parla tanto di scissione dei cattolici, ma non ci si è ancora resi conto che è già iniziato un lento ma inesorabile esodo silenzioso? Non passa giorno che un consigliere comunale o provinciale o regionale non abbandoni la nave democratica, per raggiungere i lidi moderati dell'Udc (o di Api). Ultimo, in ordine di tempo, il passaggio di Pasquale Sommese, consigliere regionale campano già Rinnovamento Italiano e poi Margherita (soltanto lui ha preso 96 mila voti alle Europee), che ha scelto l'Udc. E come lui tanti altri. Mi sa che al Pd piace perdere. Gli piace proprio tanto.